C’è solo ottimismo dietro ai fondi americani che investono nel calcio italiano?
Perché i fondi di investimento americani sono così interessati al calcio italiano? Ipotesi ottimiste, realiste e fantascientifiche
Se fino a poco più di dieci anni fa le proprietà erano italiane, oggi sono ben 17 le squadre del calcio professionistico (Serie A, B e C) in mano straniera. La fanno da padrone gli americani, sono quasi tutte loro. Con il passaggio del 55% delle quote di La Dea S.r.l.. dalla famiglia Percassi a un gruppo di investitori guidati da Stephen Pagliuca, Ceo di Bain Capital, uno dei principali fondi di investimento globali con sede a Boston, le proprietà americane sono salite a 11 su 17. Oltre a Parma, Pisa e Spal in Serie B, al Cesena in Serie C, ben 7 delle 20 squadre di Serie A sono a stelle e strisce: Atalanta, Fiorentina, Genoa, Milan, Roma, Spezia e Venezia.
Quali sono i motivi? L’ipotesi ottimista vuole che i club offrano ottime possibilità di guadagno tra stadi, diritti tv, sponsor e mercato. Ora, un sistema che fattura circa 3,5 miliardi l’anno a fronte di 5,3 miliardi di debiti, in cui i nuovi stadi rimangono chimere, gli sponsor fuggono a gambe levate e i diritti tv sono sempre più al ribasso, incidendo per il 66% sul decremento del valore della produzione (fonte: Report Calcio Figc 2021) smentisce ogni tentazione ottimista.
Per l’ipotesi realista, invece, è proprio l’arretratezza del nostro pallone a renderlo appetitoso: ci sono stadi da costruire, interi quartieri cittadini su cui ottenere compensazioni edilizie, fughe nel turismo esperienziale mordi e fuggi. Gli americani verrebbero qui a fare quello che noi non siamo capaci, quindi viva gli americani.
C’è anche, però, un’ipotesi fantascientifica, che immagina una Serie A a trazione messicana. Secondo questa ipotesi, i cartelli del narcotraffico messicano sono pieni di soldi, ma sono sporchi, vanno puliti. Allora che fanno? Comprano i club di Serie A tramite holding con sedi nei paradisi fiscali (è una pura coincidenza che siano davvero lì molte attuali proprietà del nostro pallone) e in questo modo possono trasferire dal nulla soldi freschi su un mercato legale. Poi, dato che il pallone permette operazioni assurde, tra cui quella di pagare decine di milioni il cartellino di un ragazzo che magari neppure sa giocare a pallone, si possono spostare questi soldi alla luce del sole ad altre società con sedi misteriose (come spesso succede). E per assurdo, se la squadra che paga e quella che riceve (anche questo nel calcio è prassi, ma sempre per caso) sono controllate dallo stesso cartello di narcotrafficanti, ecco che i soldi che rientrano non sono solo puliti. Sono splendenti, abbaglianti. Il calcio, e in particolare un calcio arretrato e con pochissimi controlli come il nostro, escluse per certi aspetti le società quotate in borsa, diventerebbe quindi una enorme lavanderia a cielo aperto per riciclare denaro sporco. C’è un piccolo problema, tutto questo è moralmente orrendo e legalmente impossibile.
Per fortuna è solo un’ipotesi fantascientifica: la Serie A è in mano a fondi d’investimento americani e non ai cartelli del narcotraffico messicano. C’è da essere ottimisti.