I fondi d’investimento e i burocrati dadaisti del pallone

Ogni settimana il commento di Luca Pisapia sugli intrecci tra finanza e calcio

Nell’ultimo “European Club Footballing Landscape” appena pubblicato dalla Uefa si dice che il calcio negli ultimi due anni ha perso 8,7 miliardi causa Covid – 7,2 miliardi solo per i club più importanti, nota la Uefa, giusto per ribadire che la Super Lega già esiste – ma si dice anche che è facile ipotizzare che questi soldi torneranno.

Negli ultimi vent’anni infatti il calcio europeo, è scritto nel report, è cresciuto del 8,2% con introiti superiori ai 20 miliardi. Ecco perché tutto questo interesse dei fondi d’investimento nel pallone: se prima si trattava solo di prestare soldi a interessi altissimi oggi vale proprio la pena prendersi un asset in crescita, che ha sofferto per un evento non prevedibile e a breve non ripetibile. L’ultimo ingresso di un fondo d’investimento nel pallone è quello di Oaktree che con un prestito da 275 milioni entra nell’Inter, con lo scopo probabilmente di rilevare il 31% delle quote in mano a Lion Rock, il fondo di Hong Kong che già era intervenuto in aiuto di Suning.

Oaktree, già proprietario del Caen in Ligue 1, si occupa di stati di crisi aziendali, e in Italia va a fare compagnia al fondo Lindsell Train (10% della Juve, oltre al 20% dei Celtic e al 30% del Manchester United) e al fondo Elliott, che si è preso il Milan all’interno di una assurda compravendita degna di Totò con la Fontana di Trevi. In Europa il fondo RedBird, già proprietario del Tolosa, è appena entrato nel conglomerato finanziario che detiene la proprietà del Liverpool, mentre altri fondi per lo più americani (oltre a gestire apertamente club francesi, belgi, olandesi o club di seconda fascia inglesi) in maniera più indiretta partecipano nelle sei grandi della Premier League. Per non parlare di come, attraverso il complicato sistema di prestiti erogato delle banche autonome regionali, abbiano interessi anche nelle tre big spagnole. Tutte le squadre della Super Lega, non a caso, che sarebbe dovuta nascere coi soldi di JP Morgan.

Solo interessi economici dunque? No. L’altro motivo è che i bilanci delle società di calcio hanno più a che fare più con i labirinti di Borges che con i manuali di diritto privato. Non solo posso comprare e vendere calciatori come fossero opzioni, di cui magari pago solo l’ipotesi di rischio o di guadagno, ma addirittura mi è permesso impegnare i futuri proventi dei diritti tv calcolandoli in base a dei risultati sportivi ipotetici, e ipotizzare questi risultati a seconda dei calciatori che ho appena comprato a debito o sul cui valore ho appena scommesso.

Ecco perché le società di calcio sono diventate così appetibili per i professionisti della finanza: perché il prodotto tende a crescere e perché il risultato sportivo è una scommessa in sé. Il problema però è che un club calcistico dovrebbe programmare sul lungo periodo, o almeno sul medio, mentre il cuore pulsante della finanza agisce nell’istante. È questo che non hanno capito i burocrati del pallone, gli ignavi prestigiatori contabili che si trovano improvvisamente pieni di soldi, i funzionari dadaisti che hanno traghettato il pallone nella dimensione finanziaria: il giorno in cui si renderanno conto che la bolla è destinata a scoppiare, non sapranno più nemmeno dove hanno messo la bolla. O chi gliel’ha portata via.