Dopo le rivolte alla Foxconn, la Cina resterà la fabbrica del mondo?
Le proteste alla Foxconn, la fabbrica cinese di iPhone, non sono soltanto episodi isolati ma lo specchio di un grande cambiamento in atto.
Le immagini sembrano uscite da un film. Operai che scavalcano le recinzioni della fabbrica in cui sono letteralmente rinchiusi, pronti a camminare da soli per decine di chilometri in mezzo al nulla; tutto, pur di tornare a casa. È successo nel gigantesco stabilimento della Foxconn a Zhengzhou, nella Cina centrale. Quello dove vengono assemblati gli iPhone di Apple. Un episodio clamoroso, destinato a lasciare il segno dentro e fuori dai confini cinesi.
Cosa è successo alla Foxconn di Zhengzhou
La strategia zero Covid, fortemente voluta dal presidente Xi Jinping, si basa su un imperativo molto chiaro: bloccare sul nascere qualsiasi focolaio. È proprio ciò che è successo a metà ottobre 2022 a Zhengzhou, megalopoli da dieci milioni di abitanti, dove sono stati imposti durissimi lockdown. Anche nella zona economica speciale in cui ha sede la fabbrica della Foxconn. Una città nella città con i suoi 200mila dipendenti che vi trascorrono giorno e notte, perché vivono nel campus interno.
Le condizioni in cui si sono trovati gli operai sono difficili persino da immaginare. Ai primi tamponi positivi in azienda, è stato istituito un sistema a bolle. Chi stava all’interno della fabbrica non poteva uscire e chi stava all’esterno non poteva entrare, salvo sporadiche eccezioni concesse con il contagocce. Anche all’interno del campus le varie divisioni sono state isolate l’una dall’altra, per limitare la portata del contagio. Così, migliaia di persone si sono trovate stipate in condizioni igieniche carenti, mentre i viveri e i beni di prima necessità iniziavano a scarseggiare. Tutto questo con la costante paura di ammalarsi, perché solo i positivi erano isolati, non i loro contatti stretti. Molti hanno preferito fuggire.
Xi Jinping torna (parzialmente) sui suoi passi
Per placare gli animi, i dirigenti hanno promesso un bonus una tantum e un aumento di stipendio. Un impegno che però è stato disatteso. Da qui la rivolta che si è scatenata a fine novembre, con centinaia di operai venuti alle mani con gli addetti alla sicurezza.
Fin qui, riassunti in poche righe, i fatti ampiamente documentati da giornali e social media. Prima o poi la tempesta si placherà. Anzi, mentre scriviamo queste righe si sta già placando, perché all’inizio di dicembre il governo cinese – senza ammetterlo troppo smaccatamente in pubblico – ha iniziato ad allentare le maglie della propria strategia zero-Covid. Spinto dalle proteste popolari senza precedenti nelle città cinesi, ma anche dall’intercessione diretta del fondatore di Foxconn, l’imprenditore taiwanese Terry Gou. È quanto riportano alcune fonti del Wall Street Journal che preferiscono mantenere l’anonimato.
Si infrange il sogno cinese di Apple
Ora bisognerà vedere innanzitutto come si comporterà Apple. Sul momento la batosta sarà pesante. Per via del caos generatosi negli ultimi mesi, le spedizioni di iPhone dalla fabbrica Foxconn di Zhengzhou scenderanno del 20% rispetto al previsto, limitandosi a 70-75 milioni di unità nel quarto trimestre del 2022. E il quarto trimestre è quello di Natale. Considerato che siamo nel bel mezzo di un periodo difficile per l’economia, con l’inflazione che erode il potere d’acquisto e lo spettro della recessione, gli analisti stimano che le vendite sfumate durante le festività siano definitivamente perse, non solo rimandate.
Questa défaillance apre interrogativi profondi. Perché è proprio grazie alla sua stretta relazione con la Cina che Apple è diventata una delle società più profittevoli del mondo. Tim Cook ha accettato la scommessa, Terry Gou ha aperto giganteschi stabilimenti a suo uso e consumo, innumerevoli altre società locali hanno messo in moto la supply chain.
Nel corso degli anni, però, sono cambiate parecchie cose. La Cina ha acquisito le competenze delle società tecnologiche occidentali che avevano delocalizzato . E ora sfida ad armi pari gli Stati Uniti in diversi campi, dai semiconduttori all’intelligenza artificiale. E non è nemmeno più così economica. Nel 2015 il salario medio di un operaio era di 0,79 dollari all’ora, nel 2020 era di 6,32 dollari all’ora.
Apple non è rimasta a guardare, tant’è che sta già parzialmente delocalizzando la produzione in India (per la precisione nello stabilimento di Foxconn nei pressi di Chennai) e Vietnam (che gode di una posizione strategica in termini geografici). Per ora, sottolinea tuttavia un approfondimento pubblicato da Semafor, il brand di Cupertino continua a fare affidamento sulla Cina per lo sviluppo dei suoi iconici dispositivi. Ha materialmente la possibilità di spostare tutto questo colossale apparato altrove? Certo che sì. Ma ci vorranno anni e investimenti miliardari. E non è detto che il risultato finale sia paragonabile a quello degli anni d’oro.
Non solo Apple e Foxconn: quali conseguenze per l’economia globale
Il rapporto tra Apple e Foxconn ha un valore simbolico e un peso specifico notevole, ma il ruolo della Cina come potenza industriale interessa l’economia globale nel suo insieme. Già da un paio d’anni alcuni settori merceologici strategici, tra cui l’hi-tech e l’automotive, devono fare i conti con la paralisi delle loro catene di approvvigionamento dovuta alla pandemia. Supply chain che quasi sempre passano per la Cina, esportatrice di un terzo dei beni intermedi a livello globale (cioè di quelli che a loro volta servono per produrre altri beni). La ripartenza è stata lenta, farraginosa e costellata di difficoltà.
Nel frattempo, i confini cinesi sono rimasti sbarrati, salvo limitate eccezioni. Ora Xi Jinping vuole allentare gradualmente anche queste restrizioni, ma non sarà facile recuperare quasi tre anni di isolamento e interruzione delle partnership commerciali, industriali e tecnologiche con il resto del mondo.
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Insomma, le fabbriche cinesi potranno anche ricominciare a sfornare prodotti a pieno ritmo, ma bisognerà vedere se l’Occidente continuerà ad averne bisogno. O se magari, nel frattempo, si sarà organizzato diversamente. Non c’è nemmeno troppo da fare affidamento sulla domanda interna, con una popolazione ormai stremata dai lockdown e aiutata poco o per nulla dalle istituzioni. Se infatti altri Paesi (tra cui l’Italia) hanno erogato sussidi direttamente alle famiglie nei mesi più duri della pandemia, Pechino ha preferito sostenere le industrie e investire in infrastrutture. Cioè, di fatto, foraggiare le amministrazioni locali e le società statali o parastatali.
È la fine della globalizzazione? Probabilmente no. Ma determinati equilibri, per volontà o per necessità, dovranno cambiare. Anzi, stanno già cambiando.