Uiguri, viaggio di andata e ritorno nei campi di rieducazione cinesi

Il racconto della graphic novel che ha vinto il premio Pulitzer 2022: un viaggio nella realtà dei campi di rieducazione degli uiguri in Cina

Barbara Setti
Un uomo di etnia uiguri in un mercato di Kashgar, in Cina
Barbara Setti
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How I escaped a Chinese internment camp”, di Fahmida Azim, Anthony Del Col e Josh Adams, pubblicato sul sito web del magazine Insider, ha vinto il premio Pulitzer 2022, per la prima volta assegnato a una graphic novel. Si tratta del più famoso premio soprattutto in ambito giornalistico, anche se comprende anche la letteratura e la musica.

La forza della “graphic novel” premiata dalla Columbia University

La scelta è stata curata dalla Columbia University. Il premio, creato nel 1917, si chiama così da Joseph Pulitzer, che diresse due giornali, prima a Saint Louis e poi a New York (New York World), rivolti soprattutto alla classe lavoratrice e immigrata. Pubblicava anche strisce a fumetti, la domenica, a colori (da qui l’epiteto yellow journalism). Era quello che oggi si definisce un tabloid. E anche per questo la Columbia University non accettò la proposta di Pulitzer di aprire una scuola di giornalismo da lui sostenuta.

Alla sua morte però, nel 1911, la stessa Columbia decise di istituire una serie di premi in suo onore. Anche grazie alla cospicua donazione di 2 milioni di dollari lasciati da Pulitzer. Dal 1922 era stato istituito un premio a vignette e strisce satiriche e politiche pubblicate dai quotidiani (editoriali cartooning). Ma il cambiamento di dizione in “Illustrating reporting” segna una svolta verso il riconoscimento di opere più strutturate, lunghe. La graphic novel (o romanzo a fumetti), appunto. Senza dimenticare il capolavoro di Art Spiegelman, “Maus”, che vinse nel 1992, le basi di questa nuova categoria sono state poste dalla vittoria nel 2018 di un racconto a fumetti pubblicato sul New York Times sulla storia di due profughi siriani che arrivano negli USA, Welcome to the new world. 

L’internamento e la fuga della protagonista, una donna

Anche “How I escaped a Chinese internment camp” si conclude con l’arrivo di una famiglia di profughi negli Stati Uniti. In questo caso una famiglia cinese uigura, etnia di lingua turca e religione musulmana che nello Xinjiang, regione autonoma del nord-ovest della Cina, è da tempo perseguitata dal governo cinese. Quest’ultimo è infatti accusato di aver organizzato estese e violente attività di “rieducazione”, prigionia e campi di lavoro forzati. 

manifestazione uiguri cina australia lavori forzati © Matt Hrkac Flickr
Manifestazione di Stand 4 Uyghurs, in Australia © Matt Hrkac/Flickr

Il racconto descrive, in prima persona, la spirale di folle, mostruoso, anacronistico, spietato inferno in cui cade Zumrat Dawut. Lei è nata e vive a Urumqi, capitale dello Xinjiang, che lei chiama Turkestan orientale. È una famiglia semplice (un marito, un figlio e due figlie) che vive una vita tranquilla. Inizialmente. Che inizia a peggiorare. Nel 2016 in città il governo installa videocamere di sorveglianza ogni 300 metri. Tutti i telefoni hanno un apparecchio che segnala alla polizia ogni volta che veniva pronunciata la parola o l’aggettivo musulmano.

La cultura degli uiguri gettata nelle fogne

Ogni oggetto legato alla religione islamica è sequestrato e spesso le persone imprigionate, per questo. E così «le fognature erano ricoperte di copie del corano e altri oggetti». Quell’immagine è davvero impressionante: si scrolla la pagina e la fogna, nera, si riempie sempre di più di libri, oggetti, giocattoli, piccoli gioielli, le cose della vita delle persone. 

Il 31 marzo 2018 Zumrat riceve una telefonata dalla polizia che le intima di andare immediatamente alla stazione di polizia più vicina. Da qui inizia il suo viaggio all’inferno. Viene torturata, picchiata, rasata senza comprendere mai il motivo della sua prigionia. Viene gettata in una cella (la numero 28) con più di 30 donne. Per potere sopravvivere metà stanno in piedi e metà sdraiate, a turno, ogni 3 ore. Qualsiasi azione di solidarietà verso le altre detenute non è tollerata, pena violentissime percosse con i manganelli.

Di notte le ragazze più giovani sono prelevate dalla cella e stuprate. I tentativi di suicidio sono continui. Il marito passa il tempo per stazioni di polizia e consolati senza riuscire a ottenere alcuna informazione. La rieducazione nel campo è continua e martellante: Allah non esiste, «ma Xi Jinping sì e fa molte cose buone per noi». È stata imprigionata per 62 giorni. E, dice, quello che l’ha fatta andare avanti era fare in modo che gli uiguri non si estinguessero. Poi inizia il tentativo di lasciare il Paese, che culmina con l’arrivo negli Stati Uniti.

L’impegno di Fondazione Finanza Etica sulla questione degli uiguri

Il racconto non è, per ora, tradotto in italiano. Ma la forza delle immagini lo rende comprensibile anche a chi l’inglese non lo conosce. Infatti, la motivazione del premio è la seguente: «Per aver utilizzato il reportage grafico e il mezzo del fumetto per raccontare una storia potente ma intima dell’oppressione cinese sugli uiguri. Rendendo il tema accessibile a un pubblico più ampio».

Abbiamo letto tanto, sentiamo tante informazioni sulla persecuzione di quel popolo. Fondazione Finanza Etica, insieme alla rete internazionale di azioni SfC-Shareholders for Change, fa engagement sulle imprese che utilizzano materie prime cinesi provenienti dallo Xinjian (cotone per l’abbigliamento e terre rare per il comparto delle energie rinnovabili). O che sfruttano la manodopera ai lavori forzati. E sta ottenendo anche piccoli, ma importanti risultati.