Fast fashion nel mirino: la Francia prova a cambiare le regole

Multe e stop alla pubblicità per la fast fashion. Nasce l’Eco-score per misurare l’impatto dei vestiti. Shein attacca

La Francia prova a regolare la fast fashion con una legge in discussione al Senato © the blowup/Unsplash

Nasce come promessa di inclusione: rendere accessibili i trend a chi non poteva permettersi l’haute couture. Ma dietro l’illusione della democratizzazione, la corsa inizia a diventare frenetica. Produzione lampo, distribuzione globale, consumo compulsivo. E fine corsa in discarica.

Cos’è la fast fashion e perché è un problema ambientale e sociale

A partire dagli anni Sessanta, questo modello si impone come la nuova normalità della moda. Così normale da meritare un nome tutto suo: “fast fashion”, lo battezza il New York Times nel 1989, osservando l’incredibile velocità con cui i capi passano dalle passerelle agli scaffali. Oggi quella stessa velocità riguarda anche la loro durata: indossati una volta, forse due, poi dimenticati, buttati, sostituiti da nuovi acquisti. Perché nella logica dell’usa e getta, niente è fatto per durare. Nemmeno i vestiti. Soprattutto i vestiti. E, con essi, l’ambiente e i diritti di chi quei vestiti li produce, trasporta, vende.

La fast fashion è l’emblema perfetto di un sistema, quello della moda, che non funziona. Tra il 2000 e il 2015, la produzione globale di abiti è raddoppiata. Cento miliardi di capi ogni anno, spinti da una macchina pubblicitaria che ci persuade a desiderare sempre qualcosa di nuovo, sempre qualcosa di inutile. Ma l’impatto non si ferma agli armadi stracolmi: secondo le stime, tra il 4 e il 10% delle emissioni globali di CO2 è legato a questa industria, che continua a crescere, nonostante ogni sforzo dichiarato di sostenibilità. Dietro le etichette patinate e le promesse green, resta intatto il motore che muove tutto: sfruttamento del lavoro, soprattutto nei Paesi dove cucire a ritmi disumani è ancora più conveniente che proteggere i diritti.

In Francia una legge sfida la fast fashion

Ma qualcosa, finalmente, si muove. In Francia, dove la fast fashion ha invaso armadi e vetrine come altrove, il legislatore ha deciso di provare a cambiare le regole del gioco. Il prossimo 10 giugno, il Senato sarà chiamato a votare una proposta di legge che punta dritta al cuore del problema: sanzionare economicamente le aziende che fondano il proprio profitto su modelli di produzione iper-inquinanti e vietare loro di fare pubblicità. Niente più spot patinati che mascherano distruzione ambientale e sfruttamento con lo slogan di una moda “per tutti”. Dopo anni di laissez-faire, si prova a mettere un freno a un settore che ha prosperato nell’assenza di regole, trasformando il Pianeta in una passerella a senso unico verso il collasso.

La normativa francese, già approvata dall’Assemblea Nazionale a marzo 2024, punta a colpire la fast fashion là dove fa più male: nel portafoglio e nella visibilità. Prevede un sistema di penalità economiche – una sorta di “bonus-malus” ambientale – che potrà arrivare fino a 10 euro per capo entro il 2030, con una prima soglia a 5 euro già nel 2025. A questo si aggiunge il divieto di pubblicità per le aziende definite “fast fashion” in base al numero di nuovi modelli messi sul mercato, una strategia che potrebbe tuttavia lasciare fuori nomi noti come Zara o H&M.

Ma resta un limite importante: la legge si concentra solo sugli impatti ambientali, ignorando quelli sociali. Un’occasione mancata, ha commentato Catherine Dauriac di Fashion Revolution France, che chiede da tempo un vero e proprio “eco-score sociale” per rendere visibili anche le condizioni di chi quei capi li produce. 

Come il Senato francese sta indebolendo la legge anti-fast fashion

Il testo di legge, inizialmente accolto come un primo passo verso una regolazione necessaria, è però finito sotto attacco durante l’iter parlamentare. Le associazioni ambientaliste e sociali denunciano un progressivo svuotamento del provvedimento da parte del Senato: le misure più ambiziose, come il divieto di pubblicità per i marchi di moda ultra-rapida o l’introduzione di penalità ambientali, sono state smussate o riformulate.

Un “détricotage” che sembra rispondere più alle pressioni delle lobby dell’industria e della comunicazione che all’urgenza di ridurre gli impatti ambientali e sociali del settore. Il rischio concreto è che, dietro l’apparente volontà di cambiare, si stia semplicemente cercando di salvare un modello insostenibile, mascherandolo da riforma.

La controffensiva di Shein contro la legge francese

Intanto, i giganti della fast fashion – Shein in testa – gridano allo scandalo, accusando la legge di criminalizzare l’accessibilità. Il colosso cinese dell’ultra fast fashion, ha risposto con una campagna dal tono sorprendentemente istituzionale, orchestrata da Havas Paris, agenzia del gruppo Vivendi. “La mode est un droit, pas un privilège” (“La moda è un diritto, non un privilegio”): con questo slogan, Shein si presenta come difensore del potere d’acquisto, inscenando una tutela dei consumatori mentre tenta in realtà di disinnescare una legge che ne minaccia i margini di profitto. Spot, affissioni, sito dedicato: la macchina della comunicazione è rodata. E il messaggio è chiaro: non toccate la moda a basso costo, perché è diventata un bisogno primario.

Ma dietro le quinte, il lavoro era iniziato molto prima. Nel 2024, ai tempi della discussione del progetto di legge all’Assemblea Nazionale, Shein aveva già commissionato a una controllata di Havas la redazione di documenti da far circolare tra i parlamentari. Ha anche arruolato, tra gli altri, l’ex ministro dell’Interno Christophe Castaner per dare un volto rassicurante alla sua strategia CSR, come raccontavamo in un numero precedente di Prêt-à-changer.

Alla fine, la domanda resta: chi decide cosa sia un diritto? E soprattutto, a quale prezzo? Rivendicare il “diritto alla moda” per difendere l’usa e getta, lo sfruttamento e la devastazione ambientale non è difesa dell’accessibilità, è manipolazione del concetto stesso di “diritto”. Una vera democratizzazione della moda non passa dal potersi permettere dieci capi a due euro, ma dal garantire condizioni dignitose per chi quei capi li produce e un futuro vivibile per chi li indossa.

Eco-score tessile: come funziona e cosa cambia per la moda

Sempre in Francia, a partire dall’estate 2025, verrà introdotto l’Eco-score tessile, un sistema di etichettatura ambientale che mira a informare i consumatori sull’impatto ecologico dei capi di abbigliamento. Sviluppato con l’approvazione della Commissione europea, questo strumento si basa sulla metodologia del Product Environmental Footprint (PEF) e considera l’intero ciclo di vita del prodotto, dalla produzione al fine vita. A differenza di altri sistemi di etichettatura, l’Eco-score non utilizza una scala alfabetica o numerica, ma attribuisce un punteggio che può variare da zero all’infinito: più alto è il punteggio, maggiore è l’impatto ambientale del capo.

L’Eco-score tiene conto di vari fattori, tra cui le emissioni di gas serra, il consumo di acqua, l’uso di sostanze chimiche, la produzione di microfibre e l’export dei capi usati. Inoltre, incorpora un “coefficiente di durabilità” che valuta aspetti come la tracciabilità della produzione, la durata media di utilizzo del capo, le politiche di riparazione offerte dal produttore e l’incoraggiamento al riutilizzo da parte dei consumatori.

Il ruolo dell’Eco-score nella legge francese contro la fast fashion

Sebbene l’utilizzo dell’Eco-score tessile sia ancora su base volontaria, due disposizioni potrebbero spingere le aziende ad adottarlo più in fretta di quanto vorrebbero. La prima obbliga i marchi che già dichiarano l’impronta in termini di emissioni di CO2 dei propri prodotti ad affiancarvi anche l’etichettatura ambientale specifica per il tessile, per contrastare pratiche di greenwashing sempre più diffuse.

La seconda misura dà invece potere alla società civile: se dopo un anno un’azienda non ha aderito al sistema, sarà possibile generare un punteggio “di default”, attribuito dall’esterno. Insomma, meglio attrezzarsi prima. Anche perché l’Eco-score potrebbe diventare uno degli strumenti chiave per applicare proprio la legge “anti-fast fashion”, attualmente in discussione al Senato francese.

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