Materie prime critiche: l’accordo del G7 e i piani dell’Europa
Il G7 di Sapporo segna una svolta nella corsa alle materie prime critiche. Un tema cruciale per la transizione ecologica europea
Sì all’espansione delle energie rinnovabili per velocizzare la decarbonizzazione e largo a una nuova strategia di approvvigionamento delle materie prime critiche necessarie per la transizione ecologica. Si può riassumere così l’accordo del 16 aprile al G7 di Sapporo, in Giappone, del vertice ministeriale su clima, energia e ambiente. Un bilancio scarso nell’impegno collettivo verso le rinnovabili, visto che l’aumento della capacità eolica offshore di 150 gigawatt entro il 2030 e della capacità solare di oltre 1 terawatt non prevede ulteriori sforzi rispetto ai piani nazionali già approvati. Ma che, dall’altro lato, segnala un’importante svolta nella corsa ai nuovi materiali chiave, già ribattezzati come il “petrolio delle rinnovabili“.
Materie prime critiche, cosa prevede l’accordo raggiunto al G7
Sul dossier materie prime critiche i Paesi membri hanno raggiunto un vero consenso. Il “Piano in cinque punti per la sicurezza dei minerali critici” prevede il calcolo della domanda e offerta di cobalto, litio, nickel e altre risorse cruciali per la transizione verde e digitale. Tra le altre misure, ci sono l’accelerazione sul versante del riciclo e il supporto all’Agenzia internazionale dell’energia affinché sviluppi un programma volontario per prepararsi alle interruzioni di approvvigionamento a breve termine dei minerali.
Obiettivi, questi, che dal punto di vista geostrategico rispecchiano la volontà dei Paesi del G7 di smarcarsi dal dominio cinese. Pechino, in termini di risorse raffinate, a livello globale controlla infatti il 56% del litio, il 60% del cobalto e il 58% del manganese. La Cina è anche primo fornitore europeo di terre rare, cioè di quei 17 elementi globalmente diffusi ma poco concentrati facenti parte del gruppo dei metalli – tra cui lantanio, cerio, scandio – che sono fondamentali non solo nell’industria della difesa (nei radar, ad esempio) ma anche nella produzione di magneti permanenti, fibre ottiche, batterie ricaricabili, turbine eoliche e pannelli solari. Non c’è quindi da stupirsi che l’Unione europea, paladina della libera concorrenza, stia tentando di spezzare le vecchie catene di approvvigionamento. All’insegna del mantra “diversificare la supply chain”.
Il Critical Raw Materials Act dell’Unione Europea
Il 16 marzo la Commissione europea aveva giù lanciato il Critical Raw Materials Act. Tale proposta di regolamento introduce il concetto di materie prime strategiche. E aggiorna l’elenco delle materie prime critiche che, dal 2011, il Joint Research Center rivede ogni tre anni secondo due parametri: importanza economica e rischio di approvvigionamento.
Con questa misura la Commissione punta a estrarre nel territorio europeo il 10% del consumo annuale di materie prime critiche, raggiungendo per ciascuna risorsa strategica un target del 15% di riciclo. Inoltre, almeno il 40% del consumo annuale di ciascuna materia prima strategica dovrà essere raffinato all’interno dell’Unione. Non più del 65% del consumo annuale Ue di ciascuna materia prima strategica – in qualsiasi fase di lavorazione – dovrà derivare da un singolo Paese terzo.
L’Unione europea prova a svincolarsi dal dominio cinese
Parola d’ordine: disaccoppiare. Anzi, no: è più diplomatico “riduzione del rischio”. La stessa presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, forte dei target contenuti nel Critical Raw Material Act, si è espressa proprio in questi termini in un duro discorso tenuto al Mercator Institute for China Studies, a pochi giorni dalla discussa visita disgiunta in Cina di inizio aprile in compagnia del premier francese Emmanuel Macron.
Del resto, gli Stati Uniti – tra il protezionismo trumpiano e l’Inflation Reduction Act e il Chips Act di Joe Biden – tirano dritto, sostenendo l’Eldorado dei superconduttori taiwanese. L’Unione europea, al contrario, non ha mai sostenuto un vero e proprio disaccoppiamento di rifornimento dalla Repubblica Popolare Cinese. Questo perché è consapevole di quanto sarebbe difficile e dannoso per la sua economia.
Con il de-risking, invece, von del Leyen ha voluto aprire a un nuovo dialogo. Denunciando allo stesso tempo i metodi repressivi di Pechino a livello domestico e ricordando al partner cinese il necessario rispetto dei principi sociali, ambientali ed economici su cui si basa l’azione europea nell’estrazione e commercio di materie prime critiche.
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Però, tra Stati Uniti e Cina – che con la sua politica “Made in China 2025” ha visto nascere, anche grazie alla competitività dei prezzi, massicce economie di scala nella produzione di energia solare, eolica e di batterie – l’Europa sta nel mezzo. E che Pechino ne sia cosciente lo si è visto durante la visita di Stato. Quando, a differenza di Macron, ricevuto su un tappeto rosso e accolto da parate militari, la presidente von der Leyen faceva ingresso nel Paese a un normale scalo passeggeri.
L’Europa non può fare a meno delle materie prime critiche
Ma l’Europa del Green Deal Industrial Plan, con la guerra in Ucraina alle porte e pur tentando di ricordare al presidente Xi Jimping le responsabilità di un eventuale coinvolgimento cinese, sul fronte materie prime critiche non può fare altro che seguire la leadership americana. E le stime contenute nel “Metals for Clean Energy”, studio pubblicato dall’università KU Leuven e commissionato da Eurometaux, ne spiegano le ragioni. Rispetto ai consumi attuali e comunque entro il 2050, la transizione energetica dell’Unione richiederà ogni anno +33% di alluminio, +35% di rame, +3.500% di litio, +100% di nichel, +45% di silicio, +330% di cobalto.
Gli approvvigionamenti vanno garantiti. Per questo l’Unione Europea, in maniera del tutto coerente all’apertura del Critical Raw Materials Act alla diversificazione degli approvvigionamenti, nel giugno 2022 ha aderito alla Minerals Security Partnership. L’iniziativa commerciale, guidata da Washington, guarda caso coinvolge Paesi come Canada, Australia, Finlandia, Francia, Germania, Giappone, Repubblica di Corea, Svezia e Regno Unito.
La posizione del governo italiano
Un’alleanza a cui l’Italia si è aggiunta solo il 7 febbraio scorso. Dieci giorni prima di attivare il “Tavolo nazionale per le materie critiche”, promosso nel nuovo format dal ministero delle Imprese e del Made in Italy e da quello dell’Ambiente e della sicurezza energetica. E composto anche da presidenza del Consiglio, ministero degli Affari esteri, Istituto nazionale di statistica (Istat), Ispra, Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), Enea. Nonché rappresentanti della Commissione europea e di agenzie europee, oltre che associazioni di impresa.
«Dinanzi a una realtà che vede l’Europa fortemente dipendente da Paesi stranieri per queste materie prime, strategiche per la decarbonizzazione, è necessario adottare misure che promuovano sempre più l’economia circolare», commentava al lancio del tavolo tecnico il ministro Gilberto Pichetto Fratin. «Dovremo investire di più per una migliore gestione degli scarti, puntando alla raccolta, alla selezione e al recupero delle materie prime contenute nei rifiuti. Abbandonare la visione del “rifiuto come problema” e sfruttare appieno il “rifiuto come risorsa”, da usare in modo intelligente, creativo e rigenerativo».
Verso un Club delle materie prime critiche
In aggiunta a riciclo e autoproduzione, nel Critical Raw Materials Act la Commissione Ue ha affermato però che intensificherà le azioni commerciali. Istituendo un Club delle materie prime critiche per tutti i Paesi che condividono l’idea di rafforzare le catene di approvvigionamento globali. Rafforzando il ruolo dell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO), l’espansione della sua rete di accordi di facilitazione degli investimenti sostenibili e del libero scambio e, infine, l’applicazione della legge contro le pratiche commerciali sleali.
Per materie prime critiche come litio, fosforo, borato e platinoidi, Bruxelles dipende rispettivamente dal Cile al 78%, al 71% dal Kazakhstan, 98% dalla Turchia al 71% dal Sudafrica. E vuole continuare a sviluppare partenariati strategici. Come fatto con il progetto AfricaMaVal, annunciato nel giugno 2022, per «sviluppare partenariati Ue-Africa che garantiscano l’approvvigionamento responsabile di minerali per l’industria europea, fornendo al contempo un co-sviluppo locale sostenibile». Il progetto coinvolge dieci Paesi: Repubblica Democratica del Congo, Senegal, Zimbabwe, Mozambico, Gabon, Namibia, Tanzania, Madagascar, Marocco e Sudafrica.
Gli esempi virtuosi
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Le spinte protezionistiche dei produttori di materie prime critiche
L’intenzione dichiarata è quella di portare nei Paesi di estrazione sviluppo economico sostenibile attraverso la creazione di catene del valore sicure, resilienti, accessibili. E sufficientemente diversificate per l’Ue, ovviamente. Ma attenzione: la globalizzazione non è più quella di una volta. La sperata interdipendenza europea e gli approvvigionamenti delle altre superpotenze potrebbero presto scontrarsi con il protezionismo di alcuni Paesi terzi.
Basti pensare al Messico, dove a febbraio il presidente Andrés Manuel López Obrador ha nazionalizzato il litio, consegnando le riserve al ministero dell’Energia. Oppure allo Zimbabwe che, per dare una stretta al contrabbando, ha vietato l’esportazione di litio grezzo e oro. O addirittura all’Indonesia, dove dal 2020 è in vigore un divieto totale di esportazione di nichel. Metallo di cui il Paese asiatico è primo produttore mondiale con un milione di tonnellate annue, secondo l’US Geological Survey. L’Indonesia è lo stesso Stato che, durante l’ultimo G20 di Bali, proponeva agli scettici funzionari del Canada (sesto produttore globale di nichel) di creare un’organizzazione sulla falsariga dell’OPEC per controllare l’estrazione e i prezzi del minerale.