Chi vigila sulla filiera sporca di terre rare e metalli critici?

Rischiano di alimentare lo sfruttamento di lavoro minorile e nuocere all'ambiente con le terre rare. Ecco le aziende monitorate dagli azionisti critici

Primo piano di una banconota cinese da 1 yuan, una pepita d'oro e di metallo delle terre rare sopra un'antica mappa dell'Africa © claffra/iStockphoto

Ormai è chiaro. Terre rare e metalli critici come il cobalto, litio e platino – tutti i raw materials individuati dalla Commissione europea – sono indispensabili per la transizione ecologica. Dunque per un’economia a basse emissioni di CO2. A maggior ragione – come riporta il rapporto intitolato “Les chaînes d’approvisionnement en métaux rares”, della banca Meeschaert e della rete europea di azionisti attivi SfC – Shareholders for Change – le aziende che li utilizzano sono chiamate a rispettare la cosiddetta «responsabilità estesa del produttore». E non possono ignorare l’impatto dei loro fornitori sui diritti umani e sull’ambiente. In questo senso, esistono già alcune norme come il Dodd-Frank Act negli Stati Uniti. O il Modern Slavery Act nel Regno Unito. O ancora il recente Duty of Vigilance Act in Francia. Regole che andrebbero estese anche a chi sfrutta a vario titolo le terre rare.

Ogni tonnellata di terre rare produce altrettanti rifiuti gassosi, liquidi e radioattivi

Per ogni tonnellata di Rare Earth Elements (REE) estratte dalla crosta terrestre si producono 60mila metri cubi di rifiuti gassosi contenenti acido cloridrico. Assieme a 200 metri cubi di acidi sversati nelle falde e fino a 1,4 tonnellate di rifiuti radioattivi. Le terre rare sono inoltre risorse non rinnovabili e la loro filiera è ancora lineare. Produce cioè milioni di tonnellate di rifiuti. Che invece, nell’ottica dell’economia circolare, dovrebbero essere riciclati con il recupero delle materie prime.

Gli effetti "secondari" dell'estrazione di una tonnellata di terre rare © China Water Risk Report
Gli effetti “secondari” dell’estrazione di una tonnellata di terre rare © China Water Risk Report

Anche per questo è fondamentale che, nell’attesa che entrino a regime gli organismi di controllo già predisposti, o in via di definizione dei singoli Stati e dell’Ue, le imprese si attivino. Con nuove politiche di approvvigionamento e di produzione, rispettose sia dei diritti umani che dell’ambiente. In grado poi di sviluppare e incrementare la filiera del riciclo, ora ferma a meno dell’1% della produzione mondiale.

Il monitoraggio degli azionisti attivi sui produttori

Una leva decisiva per dettare un’inversione di marcia delle aziende è senza dubbio l’azionariato critico, che attraverso la rete SfC – Shareholders for Change già nel 2019 aveva individuato 12 società potenzialmente esposte ai rischi legati all’estrazione e all’uso di metalli rari. A loro sono state poste numerose domande «scomode» durante le assemblee generali annuali, in incontri a porte chiuse, in lettere e appelli.

Proprio per appurare la consapevolezza dell’impatto delle scelte dei fornitori e industriali nell’ottica della sostenibilità e dei criteri ESG (Environmental, Social e Governance). Un fitto dialogo che, in parte già documentato nell’Engagement Report pubblicato lo scorso dicembre, è tuttora in corso.

I settori sotto controllo: eolico, automotive e chimico

Come emerge dall’analisi del rapporto sono tre i settori individuati dalla rete come i più influenzati dalle politiche sulle terre rare e metalli critici in Europa: eolico, automobilistico, chimico. Cinque le società selezionate e monitorate nell’eolico:  Vestas, Siemens-Gamesa, Orsted, Iberdrola e  Nordex . Quattro nel settore  automobilistico con PSA, Renault, Daimler e  BMW. E tre nel settore chimico legato alla produzione di magneti e batterie: Johnson Matthey, Umicore e Solvay. 

I Rare Earth Elements e i metalli critici sono ormai indispensabili per i magneti permanenti che si trovano nelle turbine eoliche offshore. Così come in alcune tecnologie per i pannelli fotovoltaici, nelle batterie ricaricabili per veicoli elettrici e nei catalizzatori per automobili. Il rapporto di SfC – Shareholders for Change funge da guida per gli investitori socialmente e ambientalmente responsabili. Mettendo nero su bianco le incongruenze del mercato.

Lacune dei codici di condotta e mancanza di trasparenza

Dai dati e dai documenti analizzati dagli azionisti attivi emerge come ci siano forti lacune sui codici di condotta che le multinazionali dell’eolico hanno fatto sottoscrivere ai loro fornitori. Se Siemens Gamesa esclude l’impiego di metalli provenienti dalle aree del globo sotto conflitto, Orsted e Vestas non nominano neppure l’utilizzo di terre rare. La seconda ha indicato una generica esclusione per i partner commerciali che non rispettano gli impegni sul lavoro forzato e minorile e a tutela dell’ambiente.

Ma non parla dei Rare Earth Elements (REE). Mentre Iberdola e Nordex hanno attivato un sistema di  whistleblowing che, tramite la possibilità di segnalazioni anonime, potrebbe favorire la trasparenza sui processi industriali. Ma ciò che emerge è che, al momento del rilevamento, non avevano mappato i rischi ambientali e sociali legati all’uso di terre rare. 

La tracciabilità che manca e il riciclo troppo basso

Altro settore cruciale finito sotto il mirino degli azionisti è quello dell’automotive. L’incentivazione del trasporto elettrico, che secondo le politiche europee da qui al 2050 deve coprire almeno l’80% degli automezzi in circolazione, è fondamentale per la decarbonizzazione. Ma dal monitoraggio sulle diverse politiche aziendali emerge la poca trasparenza nella tracciabilità delle catene di approvvigionamento di metalli rari.

Vero è che tutte le case stanno investendo in ricerca e sviluppo, per incentivare il riciclo delle batterie e per prolungarne la vita.  Dall’analisi dei cicli di produzione delle aziende chimiche che producono i catalizzatori, invece, emergono ancora troppe lacune e scarsa documentazione sui fornitori. E le azioni per incentivare il riciclo di metalli e terre rare seppure già attive, restano ancora a percentuali minime. 

Eppure agli addetti ai lavori e a parte dell’opinione pubblica sono ormai note le devastazioni ambientali e le ricadute sociali dello sfruttamento delle risorse minerarie. Anche in Cina, a tutt’oggi il maggior produttore di terre rare al mondo. La radioattività misurata nei villaggi della Mongolia interna, vicino alla miniera di terre rare di Baotou, la «capitale delle terre rare», è 32 volte superiore alla norma.

Le case automobilistiche europee e lo sfruttamento di lavoro minorile nelle miniere di cobalto

Ma come emerge dal report di Meeschaert e Shareholders for Change, anche le multinazionali europee hanno alimentato il lavoro minorile nelle miniere. È il caso di Renault, Damler e BMW coinvolte nelle controversie intorno allo sfruttamento delle miniere di cobalto in Repubblica Democratica del Congo (RDC). Proprio lì dove è concentrato il 64% dell’estrazione del prezioso minerale. Cobalto ancora indispensabile per le batterie dei motori elettrici.

Già nel 2016 Amnesty International e African Resources Watch avevano denunciato le condizioni inumane in cui anche i minatori-bambini erano costretti a lavorare. Secondo le Ong, si stima che ci siano tra i 110mila e i 150mila minatori artigianali nella RDC, tra cui un gran numero di minori. Anche per questo, proprio su Damler e BMW si sono concentrate le azioni di monitoraggio attivo degli investitori responsabili nel 2020. E entrambe le case si sono dichiarate aperte al dialogo.

II disastro ambientale e sanitario in Cina

Sono inoltre numerosi i casi di cancro segnalati localmente. Dovuti alla presenza di rifiuti tossici radioattivi e all’inquinamento delle acque sotterranee che colpiscono interi villaggi colpiti. Drammatiche conseguenze condannate dalla Ong cinese China Water Risk. Che ha puntato il dito contro le operazioni di estrazione di terre rare vicino al fiume Giallo. Una bomba a orologeria per la salute e l’ambiente. Qualsiasi perdita di acqua contaminata potrebbe minacciare la sicurezza idrica di sette milioni di cinesi.  

I residui delle lavorazioni di estrazione e raffinazione delle terre rare hanno anche un effetto disastroso sulla biodiversità, distruggendo il suolo e la vegetazione circostante. Situazione che nell’espansione di potenziali giacimenti di Rare Earth Elements, di cui per esempio il Brasile è ricco, potrebbe ulteriormente aggravarsi. Nel Paese latinoamericano lo sfruttamento minerario indiscriminato ha già causato centinaia, se non migliaia di vittime negli ultimi dieci anni.

Il crollo delle dighe delle compagnie minerarie in Brasile

L’ultimo disastro con il crollo di una diga di proprietà della società mineraria brasiliana Vale, nel 2019, ha ucciso 228 persone, con 49 dispersi. Il torrente di rifiuti minerari ha contaminato le acque potabili di un fiume a cui attingeva una comunità indigena. Disastro ambientale che fa seguito al crollo del 2015 di altre due dighe sotto la proprietà congiunta di Vale e della società anglo-australiana BHP Billiton. Fortissime le ricadute sui territori. La multa comminata alla società Vale dalle autorità brasiliane per 66,5 milioni di dollari, pari allo 0.2% del suo fatturato, certo non basterà a risanarle.    

Proprio a seguito delle violazioni dei diritti umani in Congo, è inoltre in corso una clamorosa causa giudiziaria negli Stati Uniti promossa da quattordici famiglie congolesi. Sostenuta dall’associazione International Rights Advocates, vede sul banco degli imputati le più importanti multinazionali tecnologiche al mondo tra cui Tesla, Apple, Google e Microsoft. 

La Banca Mondiale lo ha ricordato nel 2017: «Poca attenzione è stata prestata alle implicazioni della crescente domanda di materiali necessari nella costruzione di tecnologie rinnovabili e infrastrutture a zero emissioni». Ora occorre intervenire. E il ruolo degli investitori responsabili e critici potrà essere decisivo per invertire la rotta.