Lo scienziato che «non vola» è diventato simbolo del climattivismo mondiale

Gianluca Grimalda si è rifiutato di prendere l'aereo ed è stato licenziato dall'istituto tedesco per cui lavorava. L'abbiamo intervistato

Andrea Di Turi
Il ricercatore Gianluca Grimalda
Andrea Di Turi
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I viaggi low-carbon e il rifiuto di volare sono una forma diffusa di protesta e allo stesso tempo di azione contro la crisi climatica. È il caso di Gianluca Grimalda, ricercatore presso l’Università di Passau, in Baviera, scienziato del clima e attivista del movimento Scientist Rebellion. Per la coerenza con cui ha portato avanti le sue convinzioni, ha perso il posto di lavoro. Di rientro da un progetto di ricerca in Papua Nuova Guina, infatti, Gianluca Grimalda si è visto intimare dall’istituto tedesco per cui lavorava di rientrare velocemente in aereo. Ha rifiutato ed è stato licenziato.

Una storia che ha fatto il giro del mondo (e su cui sta scrivendo un libro) rendendolo un vero e proprio simbolo del climattivismo mondiale. Un suo recente tweet sui rischi di collasso di AMOC (Atlantic Meridional Overturning Circulation, fondamentale corrente oceanica dell’Atlantico) ha avuto oltre 2 milioni di visualizzazioni. «Ha sorpreso anche me», dice. «Forse vuol dire che la narrativa sulla crisi climatica basata solo sull’aumento delle temperature non basta».

Com’è maturata la sua decisione di rifiutarsi di volare?

Mi sono ispirato agli Scienziati per la responsabilità globale sapendo che, in un viaggio dall’Inghilterra a Kyoto compiuto in treno, traghetti e bici, avevano abbattuto le emissioni di CO2 di otto volte rispetto a un volo. Ho fatto il mio primo “viaggio lento” intercontinentale nel 2011, dalla Spagna alla Cina. Era più che altro un’esigenza personale perché pensavo che i disastri climatici sarebbero arrivati dopo il mio orizzonte di vita. 

Quando ha abbracciato la disobbedienza civile?

Mano a mano mi rendevo conto sia della gravità dell’emergenza climatica, sia del fatto che le Conferenze delle parti sul clima non agivano con la decisione necessaria. Allora ho pensato che bisognava alzare la voce. Alla Cop26 di Glasgow sono entrato in contatto con Scientist Rebellion. Nel 2022 la svolta, quando ho cominciato con azioni di disobbedienza civile che mai prima avrei pensato di fare. Come incatenarmi all’aeroporto dei jet privati di Linate, o incollarmi al padiglione del museo dell’auto a Wolfsburg.

Nel mondo accademico si stanno diffondendo prese di posizione come la sua?

Qualche sviluppo c’è, ma di più non direi. Persone come Julia Steinberger, autrice di rapporti del Gruppo intergovernativo di esperti sui cambiamenti climatici (IPCC), che tra l’altro mi ha dato un grande supporto, sposano la causa dell’attivismo. Altri, invece, pur volendo impegnarsi e facendo affermazioni radicali su ciò che va fatto per il clima, non arrivano a varcare la soglia della disobbedienza civile. Che, va detto, comporta molti costi da pagare sul piano personale, che gli attivisti tendono a nascondere. Anche se ci sono tanti modi di fare disobbedienza civile.

Vale a dire?

C’è la disobbedienza civile indiretta, dove ad esempio blocchi una strada per dare visibilità a una determinata istanza. Non sono però convinto che porti a conseguenze positive, al consenso nell’opinione pubblica, perché c’è il rischio che si guardi all’atto e non al messaggio. Poi c’è quella diretta, dove la protesta è mirata contro chi identifichi come “colpevole”, ad esempio bloccando in massa gli scavi di una miniera di carbone come è successo a Lützerath. Trovo che in questo modo il messaggio sia più chiaro.

Poi c’è differenza tra azione personale e collettiva. Personalmente ho trovato un grande consenso quando ho detto no al mio datore di lavoro che voleva rientrassi in aereo. Forse perché il sacrificio che comportano azioni come questa è più evidente e comprensibile, anche se ammetto che, avendo una posizione accademica, probabilmente ho più ascolto e ho bisogno di fare di meno. Tuttavia l’azione individuale, anche se può spostare le coscienze, produce effetti maggiori quando si inserisce in un’azione collettiva. Comunque non considero la disobbedienza civile l’unica strada: credo siano molto efficaci, ad esempio, le climate litigation, che si stanno sviluppando molto. Concordo con Peter Kalmus: occorre combattere su diversi piani e con diverse strategie, avanzando per prove ed errori.

Che tipo di narrazione ritiene più efficace sulla crisi climatica?

La difficoltà principale è che la nostra mente procede per generalizzazioni di solito non fondate logicamente, utilizzando molto più il pensiero intuitivo, veloce, rispetto al pensiero razionale, lento. Dire che se superiamo certi limiti di aumento delle temperature siamo spacciati, o che abbiamo solo un tot. di anni per salvare il Pianeta, oltre che fattualmente sbagliato secondo me è controproducente. Credo invece possa funzionare soprattutto aiutare le persone a cambiare il punto di riferimento. Mi spiego: non dobbiamo indorare la pillola, è giusto dire che abbiamo già perso molto, che siamo oltre la safe climate zone, che siamo vicini al collasso degli ecosistemi anche se non sappiamo quanto.

Tutto questo ovviamente fa paura, ma la paura associata alla possibilità di azione è una leva potentissima. Per cui bisogna anche dire che dobbiamo lottare per non perdere ancora di più: accettare la perdita, cioè, ma essere consapevoli che c’è tantissimo da difendere, che forse abbiamo già “perso” la Groenlandia ma possiamo salvare l’Amazzonia. Perché è vero che come il Titanic stiamo andando incontro a un iceberg, ma arrivarci a 20 invece che a 100 all’ora fa molta differenza. Diminuire la velocità d’impatto può voler dire salvare milioni di vite.