Manderieux: «Vaccino anti-Covid, Europa disarmata di fronte a Big Pharma»

Autoproduzione del vaccino, licenze e brevetti. Ne parla Laurent Manderieux, docente presso il dipartimento di Studi giuridici dell’università Bocconi

Sono molte le implicazioni giuridiche legate alla produzione del vaccino anti-Covid © Succo/Pixabay

Nella contesa sul vaccino contro il coronavirus è Big Pharma a fare il “gioco sporco” o l’Europa a non conoscerne le regole? È normale che i cittadini di molti Paesi del mondo minacciati dal contagio si vedano impedito un tempestivo accesso all’unica vera soluzione messa in campo contro la drammatica pandemia in corso? Una soluzione agognata e potente. Ma fragile. A causa del rapido e continuo insorgere di varianti del virus, innanzitutto. Ma anche per le dichiarate difficoltà produttive e i tagli unilaterali alle forniture, che mettono in crisi le campagne nazionali di distribuzione del farmaco.

Ed ecco allora che sul vaccino si consuma una battaglia globale centrata sulla proprietà intellettuale e sul sistema dei brevetti, rivelatisi una barriera di salvaguardia del diritto al profitto così efficace da ostacolare il diritto alla salute.

Ma è questo l’unico sistema possibile? Esistono responsabilità da perseguire per la situazione di impasse? E la strada verso un’autoproduzione dei vaccini per accelerarne la distribuzione è davvero percorribile? Tante le domande che sorgono sulla questione. Le abbiamo poste al professor Laurent Manderieux, docente al Dipartimento studi giuridici dell’Università Bocconi.

Il sistema dei brevetti sul vaccino è l’unico possibile?

«Il brevetto, nella sua forza e nella sua debolezza, si applica ad ogni forma di invenzione, dal rossetto agli elementi di un motore di un’automobile oppure un aereo oppure un robot, e anche naturalmente al medicinale. Parafrasando Winston Churchill, che diceva che la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre forme di governo sperimentate finora. Così vale per i brevetti. Il brevetto è la peggior forma di protezione, eccezion fatta per tutte le altre forme sperimentate finora. Questo è un po’ il punto fondamentale: gli Stati non hanno trovato un modo migliore per incentivare la scienza, e per incentivare la ricerca».

E non ci sono deroghe in caso di pandemia?

«C’è una serie di deroghe, dei contrappesi, che tutelano il cittadino e gli Stati in circostanze assolutamente giustificabili come quelle di una pandemia. E queste deroghe dovrebbero essere ben conosciute dagli Stati. Anche perché tutti gli Stati europei, inclusa l’Italia, hanno firmato i famosi accordi TRIPS in appendice all’adesione all’Organizzazione mondiale del commercio (Omc o Wto, ndr) nel 1994. E dopo la lotta dell’india e del Sudafrica e di altri Paesi negli anni 90 per fronteggiare la pandemia di AIDS, gli accordi TRIPS sono stati confermati nella conferenza di Doha del 2001. I TRIPS consentono ad ogni Stato di decretare, in caso di emergenza, un allentamento del sistema dei brevetti».

E perché ciò non è avvenuto?

«In Europa la legislazione che sovrintende ai brevetti rimane di competenza in gran parte nazionale. Questo vuol dire che l’arma tipica che ha un governo in caso di pandemia, prevista dagli accordi TRIPS, è la possibilità di introdurre una licenza obbligatoria. Ed è regolamentata da una legge nazionale. Le leggi nazionali dei nostri 27 Paesi sono diverse. Alcuni Paesi contemplano la licenza obbligatoria per pandemia, ad esempio Francia e Spagna, mentre l’Italia non la prevede. E questo è un aspetto incomprensibile. Quindi la Commissione europea è andata a negoziare con le case farmaceutiche con questo arsenale legislativo. E non ha potuto utilizzare a pieno regime la minaccia delle licenze obbligatorie per ottenere, eventualmente, delle condizioni più favorevoli».

Ma qualche Paese ha ottenuto più vaccini, e prima…

«Israele, a marzo del 2020, una settimana dopo l’inizio della pandemia sul proprio territorio, ha varato una licenza obbligatoria su un medicinale antivirale, il Kaletra di Abbvie, utilizzato per curare i pazienti già malati di Covid19 in ospedale. Abbvie non poteva fornire quantità sufficienti di medicinale e Israele ha dato quindi la licenza obbligatoria per produrselo da solo. Con la sua azione Israele ha spaventato le case farmaceutiche. E quando, sei mesi prima di noi, Israele si è presentato a tutte le aziende che dicevano di fare ricerca per trovare un vaccino, le compagnie hanno ascoltato con molta attenzione questo cliente in qualche modo minaccioso, difficile e che non avrebbe dovuto dare ulteriormente il cattivo esempio agli altri».

È bastata la minaccia della licenza obbligatoria? E perché in Europa non si è fatto?

«Israele ha utilizzato sia il bastone che la carota. Alle case farmaceutiche ha detto di volere i grandi quantità di vaccino e di acquistarle al prezzo stabilito dalle case farmaceutiche. Mentre L’Unione Europea ha contrattato sul prezzo. E in più ha promesso di offrire alle case farmaceutiche i dati clinici dei pazienti, trattandosi di un vaccino in sperimentazione, così che le compagnie potessero affinare il prodotto facendo ricerca. Anche gli Stati europei, se avessero avuto la legislazione a posto, avrebbero potuto battere questa strada. E in Italia qualcuno ha provato a inserire un emendamento nella Legge di bilancio di quest’anno, ma il precedente governo non ha varato l’emendamento (dichiarato inammissibile per estraneità alla materia, ndr). Si poteva fare qualcosa per cambiare le nostre leggi, anche in tempi rapidissimi, bastava un piccolo emendamento in fondo».

Non dovremmo comunque insistere sulla licenza obbligatoria?

«La battaglia per avere domani dei vaccini Pfizer e Moderna che non siano prodotti da Pfizer e Moderna è persa. Ma per il dopo, e per eventuali successive pandemie e per la necessità degli Stati, servirà una legislazione adeguata. Anche perché dovremo decidere come gestire milioni di malati ed ex malati che avranno delle conseguenze, e forse avremo bisogno di nuovi medicinali. A livello statale o eventualmente europeo, in funzione di una ricostruzione del sistema sanitario, serve quindi che si abbiano in mano tutte le armi della legge disponibili in piena conformità con gli accordi dell’Omc».

Puntare sui tribunali non è invece possibile?

«La via legale è percorribile, ma è probabile che nei contratti stessi siano previste delle clausole che prevedono il ricorso agli arbitrati (spesso accusati di essere uno strumento più favorevole alle imprese che agli Stati, ndr). Questo per avere maggior velocità per entrambe le parti nel affrontare certe controversie. La prospettiva di rivolgersi ai tribunali, sia in Italia che in Europa, si annuncia invece lentissima. Mentre noi cittadini vogliamo le dosi di vaccino ora e non un risarcimento tra 14 mesi, se tutto va bene».

Che la ricerca Big Pharma per sviluppare i vaccini in tempi record si fondi al 70% su soldi pubblici non è una leva sufficiente?

«Uno dei Paesi che ha la legislazione più dinamica in questo senso sono gli Stati Uniti, che hanno varato nel 1980 il Bayh-Doll Act. Una legislazione che permette allo stato federale, quando una ricerca è stata effettuata su fondi federali, di potersi impadronire eventualmente della titolarità del brevetto oppure di dare priorità per le licenze ad aziende americane, soprattutto alle piccole e medie. Dunque gli USA hanno un arsenale legislativo perfetto, e i vaccini Pfizer prodotti negli Stati Uniti servono per il pubblico americano. Mentre le fabbriche all’estero servono il resto del mondo. I nostri Paesi hanno invece delle legislazioni nazionali e non armonizzate. Dunque esiste un problema che riguarda l’Europa».

Qualcuno spera che il WTO accolga le istanze di sospensione del brevetto avanzate da Sudafrica, India e Cina?

«Tale richiesta è basata sul caso (poco convincente) che riguardò il Sudafrica di Nelson Mandela, che vinse in tribunale ma dopo fu incapace di produrre i farmaci. Anche in quel caso la minaccia del bastone funzionò, e le case farmaceutiche abbassarono i prezzi. Oggi lo scenario è molto diverso. Sudafrica, India e Cina, anche se quest’ultima non si espone troppo vista la campagna occidentale di critiche sulla genesi della pandemia, vorrebbero allargare la loro quota di mercato nel settore farmaceutico. Sotto il velo di una presunta bontà, della volontà legittima di aiutare numerosi Paesi poverissimi (in particolare nell’Africa sub-sahariana…) senza capacità di produzione farmaceutica, si offre loro l’accesso ai farmaci con un sistema che si traduce nella vendita della medicina indiana in questi Paesi. La richiesta di sospensione è quindi sì generosa ma avvantaggia chi la pone nel medio periodo. E non offre grande vantaggio né ai Paesi più poveri, comunque dipendenti dagli aiuti internazionali per comprarli, né ai cittadini di quelli più industrializzati».

Norme e tribunali a parte, un’ultima domanda sorge. I limiti di fornitura improvvisi delle dosi denunciati da colossi come Pfizer e AstraZeneca sono giustificati e insormontabili?

Una domanda che si è posto anche James Love, direttore dell’americana Knowledge Ecology International (KEI), che risponde nel merito a Valori. Love sottolinea che «Non tutti i Paesi possono produrre un vaccino, ma una volta che si indaga, ce ne sono molti che potrebbero farlo. Ed è anche vero che le aziende che producono farmaci possono, in alcuni casi, riutilizzare altre strutture per fare i vaccini».

Ed ecco perché Peoples Vaccine Alliance, di cui KEI è membro, e Health Action International (HAI) hanno inviato una lettera al dottor Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS). Nel testo ci sono raccomandazioni concrete per facilitare il corretto funzionamento di C-TAP come meccanismo per scalare la produzione, aumentare la concorrenza e accelerare la consegna di vaccini, terapie e altre tecnologie. Ma non solo. KEI ha anche pubblicato una lista delle strutture scientifiche che potrebbero essere “arruolate” nella produzione dei vaccini, per aumentare la capacità complessiva. Certo, per poterle sfruttare serve un via libera sulle licenze.