«Niente più fondi per nuove centrali a carbone». La (mezza) svolta di HSBC
Il colosso bancario inglese non finanzierà nuovi impianti nemmeno in Asia. Ma gli attuali investimenti produrrebbero comunque 37 volte più emissioni del Regno Unito
È una delle banche più esposte al mondo nel finanziamento della produzione di combustibili fossili. Comprensibile quindi che l”annuncio del colosso londinese HSBC di non voler più finanziare nuove centrali a carbone fa fare un mezzo sorriso a chi ha spesso criticato l’eccessiva debolezza delle sue policy ambientali. Ma le ombre permangono. E non sono marginali.
L’annuncio della svolta è arrivata all’ultima assemblea degli azionisti (a porte chiuse, causa coronavirus), il 24 aprile scorso. La banca inglese ha confermato, nelle risposte alle domande scritte di alcuni azionisti, di voler ripensare la propria politica energetica, per renderla più stringente.
Con ciò l’istituto, che con quasi 8 miliardi di fondi al carbone è al secondo posto nella classifica delle banche inglesi più compromesse, spera forse di uscire dai mirini delle campagne a sostegno del contrasto ai cambiamenti climaticiVariazione dello stato del clima rispetto alla media e/o variabilità delle sue proprietà che persiste per un lungo periodo, generalmente numerosi decenni.Approfondisci. Da Bank Track a Market Forces, da Christian Aid a 350 e Share Action hanno spesso sottolineato i gravi ritardi del gruppo britannico sulle questioni climatiche anche rispetto ad altre istituzioni finanziarie.
HSBC, 80 GW di fumo nero e le scelte sull’Asia
Anche le nuove decisioni prese in assemblea dei soci non cancellano la diffidenza sulla loro concreta attuazione. Il recente passato non aiuta certo a fugare i sospetti: nel 2018, HSBC, cinicamente, aveva infatti varato la sua policy energetica mantenendo la facoltà di continuare a prestare risorse per realizzare centrali in Bangladesh, Indonesia e Vietnam. Per giustificare tale eccezione, della durata di cinque anni, era stato presentato il parere di alcuni esperti indipendenti secondo i quali in quei Paesi non esiste attualmente un’alternativa praticabile al carbone in grado di garantire l’approvvigionamento di energia.
Di fatto si trattava di un margine di manovra, da qualcuno definito persino “razzista”, che la banca si era assicurata in Paesi in via di sviluppo assetati di energia, nei quali la sensibilità ambientale è ridotta. Un margine garantito anche dal mantenimento di quote di proprietà in aziende impegnate nella costruzione di 80 GW di nuovi impianti inquinanti. «Se questi progetti andranno avanti, genereranno l’equivalente di circa 37 anni delle attuali emissioni annuali di anidride carbonica (CO2) nel Regno Unito», ricordava l’environmental finance watchdog Market Forces alla vigilia dell’assemblea.
Basta esenzioni, ma restano nodi da sciogliere sul clima
Il tema della politica energetica della banca e delle sue controverse esenzioni è stato perciò toccato negli interrogativi inviati dagli azionisti. La risposta del CdA dell’istituto è stata un’impegno ad abbandonare il carbone anche in Vietnam, Bangladesh e Indonesia. «È importante notare che da allora (dall’affermazione delle esclusioni del 2018, ndr) HSBC non ha fornito alcun finanziamento di progetto per nuove centrali elettriche a carbone in qualsiasi parte del mondo, compresi quei Paesi», si legge nel resoconto.
«Abbiamo ora modificato la nostra politica per eliminare questa eccezione e non finanzieremo alcuna nuova centrale a carbone in tutto il mondo».
Il punto a favore della riduzione delle emissioni di gas ad effetto serraGas che compongono l’atmosfera terrestre. Trasparenti alla radiazione solare, trattengono la radiazione infrarossa emessa dalla superficie terrestre, dall'atmosfera, dalle nuvole.Approfondisci è indubbio. Tuttavia resta aperto un altro nodo altrettanto cruciale: HSBC detiene infatti azioni “compromettenti” di compagnie coinvolte nella filiera del carbone e, più in generale, delle “energie sporche”. A causa di quelle quote societarie, attacca Share Action, «la politica di HSBC è ancora molto lontana da quella di altre banche europee».
Il controverso progetto del porto di Payra
Il fronte ambientalista quindi non molla. Chiede ad esempio che HSBC ritiri il proprio suo sostegno al dragaggio del porto di Payra in Bangladesh, che importerebbe ogni anno fino a 20 milioni di tonnellate di carbone per otto centrali, tra progettate e già in costruzione, con una capacità di 10 gigawatt. Anche perché la banca, alla richiesta di impegnarsi ad essere “a zero emissioni” entro il 2050 ha fornito una risposta più che vaga: «Abbiamo avviato una revisione della nostra strategia per il clima e forniremo un aggiornamento entro la fine dell’anno».
Via dal carbone: la spinta degli attivisti e del mercato
HSBC fa comunque qualche passo avanti nel novero delle banche che applicano strategie di sostenibilità, almeno sul carbone:
- 22 hanno interrotto il finanziamento diretto a nuovi progetti di miniere di carbone termico in tutto il mondo;
- 28 hanno interrotto il finanziamento diretto a nuovi progetti di centrali a carbone in tutto il mondo.
In tal modo il gruppo persegue una scelta che, se non ormai obbligata, è di sicuro stata indotta anche dalle sempre più forti pressioni piovute per anni sugli azionisti e sul top management. Anche perché, alle durissime critiche delle organizzazioni attive nella lotta ai cambiamenti climatici si sono aggiunti anche gli investitori, che hanno chiesto alla banca politiche più sostenibili.
C’è poi il fattore concorrenza: i diretti concorrenti di HSBC hanno sferrato più di un colpo alla sua pervicacia coal friendly. Standard Chartered Bank ha ad esempio annunciato a dicembre scorso il ritiro da tre progetti legati al carbone nel sud-est asiatico. Una mossa che, probabilmente, ha spinto HSBC ad accodarsi, e che è stata sostenuta anche dal fatto che pure alcuni importanti istituti di credito giapponesi hanno avviato l’addio a nuovi investimenti sul carbone a metà aprile.
Conti 2019 in rosso, HSBC scopre le azioni amiche del clima
Ma non è tutto: la banca ha infatti registrato un calo del 53% sull’utile netto del 2019 (fermo a 5,97 miliardi di dollari). E così, complici le incertezze sulla Brexit, le proteste antigovernative a Hong Kong e le tensioni commerciali tra USA e Cina, teme l’impatto della crisi per la pandemia da coronavirus. Ricavando metà del fatturato dal mercato asiatico, HSBC prevede di incorrere in 7,2 miliardi di dollari di spese di ristrutturazione, con tagli per 35 mila posti di lavoro (su 235mila totali) e 100 miliardi di dollari in asset nel corso dei prossimi tre anni.
Segnali positivi
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In questo quadro fosco, ad aver ottenuto risultati finanziari superiori alle aspettative sono stati i titoli delle società meglio piazzate rispetto ai criteri ESG (cioè ambientali, sociali e di governance). Anche HSBC se n’è accorta: «Le azioni incentrate sul clima – scriveva in un rapporto pubblicato a marzo scorso – hanno sovraperformato gli altri del 7,6% da dicembre e del 3% da febbraio. Le azioni ESG hanno battuto gli altri di circa il 7% per entrambi i periodi».
Chissà se queste informazioni hanno pesato nell’accelerazione varata il 24 aprile. Se fosse, ciò darebbe ragione a quanto si augurava Market Forces riguardo al cambio di CEO in HSBC. Noel Quinn, «è subentrato ad interim nell’agosto 2019 prima di essere confermato amministratore delegato permanente della banca nel marzo 2020. Ciò rappresenta un’opportunità vitale per HSBC di cambiare rotta».