Il fondo sovrano norvegese: più rinnovabili, meno fossili. E non per bontà
Il fondo investirà in società non quotate nel settore delle rinnovabili, abbandonando (parzialmente) gas e petrolio. "Scelta non ambientale ma per tutelare il nostro portafoglio"
Il governo della Norvegia ha autorizzato il proprio fondo sovrano ad investire in società non quotate attive nel settore delle energie rinnovabili. L’organismo finanziario della Norges Bank, la banca centrale della nazione scandinava, continua così il «riposizionamento» del proprio portafoglio.
Per il fondo sovrano della Norvegia si tratta di una scelta non usuale
Venerdì 5 aprile, il ministro delle Finanze Siv Jensen ha annunciato di aver concesso al Government Pension Fund Global la possibilità di avviare tale tipologia di investimenti. Una scelta per nulla scontata. È infatti raro che il fondo punti su imprese non quotate. Analizzando il portafoglio del colosso finanziario, si nota come esso abbia privilegiato nel 70% dei casi aziende quotate. Il resto è diviso tra obbligazioni e una piccola quota (3%) nell’immobiliare.
In termini tecnici, per effettuare le operazioni nelle rinnovabili non quotate, la Norges Bank deve utilizzare una dotazione speciale dedicata all’ambiente: esiste già e il suo valore passerà da 60 a 120 miliardi di corone norvegesi (12,4 miliardi di euro). Il tutto, però, con un limite: il governo di Oslo ha imposto un tetto massimo. Il totale degli investimenti in infrastrutture non quotate dovrà essere limitato al 2% del totale degli asset.
I capitali in gioco per le rinnovabili sono sottoposti a tetti ma rilevanti
Ciò nonostante, i capitali in gioco sono importanti. E la nuova strategia consentirà al fondo di investire in un numero più ampio di parchi eolici o fotovoltaici. E in diverse fasi della loro costruzione. Il ministero ha sottolineato il fatto che in questo modo si potranno massimizzare i rendimenti. Sfruttando un settore, quello delle fonti rinnovabili, che è evidentemente in salute, in crescita e in grado di attrarre gli investitori. Quella attuata è infatti una pura strategia d’investimento: «Non una politica legata al clima».
La svolta, dunque, non è dettata da principi ecologici. È noto, d’altra parte, che il fondo per decenni è cresciuto grazie al denaro ottenuto tramite la vendita di petrolio. Arrivando a gestire asset di un valore di circa mille miliardi di dollari. Eppure da tempo Oslo sembra voler operare un cambiamento drastico. Già nel mese di novembre del 2017, infatti, aveva paventato l’idea di abbandonare il combustibile fossile.
Sono stati necessari alcuni mesi di riflessione e le conclusioni di un comitato di esperti. Ma l’8 marzo di quest’anno successivo, Jensen ha annunciato la prima (parziale) svolta. Che ha comportato l’uscita anche dal capitale delle imprese produttrici ed esportatrici di gas. «L’obiettivo – aveva spiegato – è di ridurre la vulnerabilità della nostra ricchezza comune di fronte ad un calo permanente del prezzo del petrolio».
La svolta (a metà) su petrolio e gas
Va detto però che si è trattato di un passo indietro effettuato soltanto a metà. Il governo di Oslo ha infatti deciso di rimanere presente nel capitale della Equinor (ex Statoil), la compagnia petrolifera di Stato. Inoltre, ad essere escluse sono state soltanto le imprese specializzate nella ricerca e produzione di greggio e gas. E il tutto è stato stabilito in modo graduale e di concerto con la banca centrale. Esattamente come fatto nel 2015 con il carbone.
Ciò nonostante, si è trattato di una buona notizia. Teoricamente, infatti, le esclusioni riguardano 134 compagnie e asset per circa 7 miliardi di euro. Yossi Cadan, responsabile della campagna “Disinvestimenti” dell’ong 350.org, ha spiegato che «la decisione dovrebbe essere percepita come un’allerta rossa per le banche private e gli investitori. I cui asset legati a gas e petrolio stanno diventando sempre più rischiosi e moralmente inaccettabili».
Alle scelte del fondo pensione si affianca poi quella, anche più eclatante, del partito laburista norvegese. Che ha assunto all’inizio di aprile una decisione storica: quella di opporsi alle trivellazioni presso le isole Lofoten. Rinunciando così allo sfruttamento di quantitativi potenzialmente enormi di risorse, che avrebbero fruttato miliardi di dollari.