Il land grabbing all’italiana e le responsabilità della finanza
Ormai se ne parla correntemente anche da noi: milioni di ettari di terra agricola vengono quotidianamente strappati ai piccoli produttori locali in Africa, Asia e ...
Ormai se ne parla correntemente anche da noi: milioni di ettari di terra agricola vengono quotidianamente strappati ai piccoli produttori locali in Africa, Asia e America Latina ad opera di multinazionali senza scrupoli che, in nome della massimizzazione del profitto, trasformano sistemi socioeconomici tradizionali ed ecosostenibili in decontestualizzate macchine per la produzione di cibo ed energia su scala industriale.
Ma il land grabbing non è certo un fenomeno nuovo. Per secoli, infatti, l’assicurarsi il controllo dei territori e delle loro risorse naturali è stato il leitmotiv che ha guidato l’espansione coloniale, ed interi Stati sono stati fondati proprio scacciando le persone dalle loro terre.
Oggi emergono però aspetti nuovi e forse meno conosciuti, che riguardano sia le ragioni per cui l’accaparramento di terre da un po’ si è palesato in una forma più virulenta e contagiosa, sia la diversificazione degli attori coinvolti, sia il ruolo che l’Italia sta giocando in questo affare.
Nel 2008, dopo svariati decenni di globalizzazione forzata, di regimi politici neoliberisti e di sfruttamento sfrenato delle risorse naturali a livello globale, sono esplose alcune crisi convergenti, che hanno innescato una nuova corsa globale all’accaparramento di terre:
- la crisi alimentare e la dichiarata necessità per i Paesi più insicuri di garantirsi un approvvigionamento alimentare costante e a basso prezzo, esternalizzando la produzione di cibo altrove
- la crisi energetica e climatica, che nel corrente modello di sviluppo ha imposto la necessità di diversificare le fonti energetiche facendo schizzare in alto la domanda di agro-combustibili
- la crisi finanziaria e l’enorme quantità di capitali scappata dai mercati tradizionali in cerca di beni di investimento più sicuri e redditizi, che ha condotto a un forte aumento della speculazione sia sulla terra che sul cibo.
Proprio la crisi finanziaria del 2007-2008 ha contribuito a trasformare la terra in un asset strategico di investimento anche per nuovi attori, diversi dalle tradizionali società multinazionali. Con lo scoppio della bolla dei mutui sub prime negli Stati Uniti, il conseguente crollo del “mattone” come opportunità di profitto eccellente e la crisi globale che ha investito i mercati finanziari, una grande quantità di capitali è fuggita dai mercati tradizionali alla ricerca di più sicure fonti di profitto.
A partire dal 2008, anche un esercito ben equipaggiato di banche, fondi d’investimento, fondi pensione, fondi di private equity, hedge funds e compagnie di assicurazione hanno cominciato a fare scorpacciata di terra in tutto il mondo. La loro condotta ha provocato un immediato innalzamento dei prezzi e ridotto il margine di manovra dei piccoli produttori locali, impedendo loro l’accesso alla terra per la sussistenza e deprivandoli dei loro mezzi di sostentamento. Nel caso di questi attori non sempre la terra viene arraffata a fine di coltivazione. Infatti, al di là della crescente concorrenza globale sulla terra per produrre cibo su scala industriale e agro-combustibili, essi acquistano terreni per tutelarsi contro l’inflazione, o come veicolo per entrare in nuovi mercati e acquisire posizioni dominanti o di monopolio in quei mercati che si prevede diverranno molto lucrativi nel prossimo futuro.
E l’Italia come c’entra? Come descritto nel rapporto recentemente pubblicato dall’associazione Re:Common, “Gli arraffaterre”, l’Italia è immersa fino al collo nel business del land grabbing.
Per quanto inaspettato, il nostro Paese sembra essere, tra quelli Europei, uno dei più attivi negli investimenti su terra all’estero, seconda solamente all’Inghilterra, con Germania, Francia, Paesi Scandinavi, Olanda e Belgio a seguire.
E’ l’Italia delle grandi utilities energetiche, dei giganti dell’abbigliamento, l’Italia delle piccole e medie imprese che con la liberalizzazione del mercato dell’energia si sono buttate a capofitto nel profittevole business degli agrocombustibili. Ma è anche l’Italia delle banche e delle imprese assicurative. Che lo facciano promuovendo presso la propria clientele prodotti finanziari che permettono a chi investe di fare profitti sulle variazioni sui prezzi del cibo, oppure finanziando direttamente o indirettamente società del settore agro-industriale anche le banche nostrane giocano un ruolo chiave nel rapido processo di sottrazione delle terre alle comunità locali. Che detengano nei portafogli dei propri fondi comuni titoli di compagnie multinazionali coinvolte, o che investano in ricerche nel settore agricolo e delle soft commodities come base per investimenti in titoli di imprese dell’agroindustria, esse si stanno rendendo complici della diffusione di un fenomeno che sta portando intere comunità all’indigenza, e, implicitamente, di un modello di sviluppo insostenibile che ha già dimostrato tutta la sua inefficacia.
L’accaparramento di terra nella forma odierna è l’ennesimo strumento di attacco alla sovranità delle comunità locali sui propri territori e alla valorizzazione dei beni comuni per l’interesse e beneficio collettivo. L’Italia, se da un lato una volta di più non si esime da cercare il suo posto al sole, dall’altro è essa stessa sempre di più teatro in cui si consuma un attacco ai beni comuni senza precedenti. Ne sono testimonianza le diverse vertenze locali che si stanno diffondendo anche da noi contro l’uso e l’abuso dei territori da parte di un modello letale di partenariato pubblico-privato, che non ha nulla a che fare con l’interesse collettivo.
E se l’attacco ai beni comuni non ha frontiere, non deve averne neppure la nostra risposta. Siamo cittadini, ma anche lavoratori, consumatori, correntisti, clienti di imprese assicurative. Per ognuna di queste funzioni abbiamo un ruolo e le potenzialità per influenzare e reindirizzare scelte scellerate. Che si tratti dell’irresponsabilità dei nostri governi, delle banche a cui concediamo di gestire in nostri risparmi, delle assicurazioni che paghiamo profumatamente per la nostra sicurezza, dei fondi pensione a cui affidiamo il nostro futuro, siamo noi che permettiamo loro di operare.
E’ a noi che devono rendere conto. Ricordiamocene.