IMO: introdotto un prezzo globale per le emissioni del trasporto marittimo
Per la prima volta le navi pagheranno per inquinare. Ma le misure dell'IMO rischiano di incentivare carburanti che distruggono le foreste
Per la prima volta nella storia, la comunità internazionale ha concordato un quadro normativo globale per la decarbonizzazione del trasporto marittimo. Venerdì 11 aprile, al termine dell’83esimo vertice MEPC (Marine Environment Protection Committee) dell’Organizzazione marittima internazionale (IMO), i rappresentanti degli Stati hanno approvato a maggioranza un meccanismo di pricing delle emissioni che entrerà in vigore nel 2028.
L’obiettivo dichiarato è allineare il settore navale agli impegni sul clima assunti nel 2023. Ovvero la riduzione delle emissioni del 20-30% al 2030 e la neutralità climatica intorno alla metà del secolo. Si tratta del primo schema globale di tariffazione delle emissioni di CO2 per un’intera industria.
Tuttavia, secondo l’analisi dell’Ong Transport & Environment (T&E), la misura rischia di produrre effetti contrari a quelli sperati. Le nuove regole, addirittura, potrebbero stimolare un massiccio ricorso ai biocarburanti di prima generazione come olio di palma o di soia. Noti per causare deforestazione e aumento delle emissioni.
Come funzionerà il meccanismo dell’IMO
A partire dal 2028, tutte le navi del mondo dovranno iniziare a utilizzare un mix di combustibili a minore intensità di CO2. Oppure pagare per l’eccesso. Il meccanismo introdotto dall’IMO prevede che le navi paghino delle tasse in caso di mancato rispetto di due serie di obiettivi di intensità. Ovvero un “obiettivo di base” facile da raggiungere e un “obiettivo di conformità diretta” più rigoroso. Oppure che scambino crediti per conformarsi.
Ad esempio, una nave che continua ad utilizzare combustibili convenzionali fossili nel 2028 dovrebbe pagare 380 dollari per tonnellata sul 4% di emissioni in più rispetto all’obiettivo di base. E 100 dollari a tonnellata sul 13% di emissioni in più rispetto all’obiettivo di conformità diretta. In alternativa, è possibile acquistare “unità correttive” dalle navi più virtuose. Le quali possono accumulare e vendere “unità in eccesso”.
L’introduzione di questo meccanismo dovrebbe generare circa 10 miliardi di dollari all’anno fino al 2030. Quindi un totale che va da 30 a 40 miliardi. Una parte di queste risorse finanzierà la transizione energetica del settore tramite un Net-Zero Fund ancora da definire. Eppure, restano forti perplessità sulla distribuzione dei proventi, che dovranno servire anche ad aiutare i Paesi più vulnerabili a far fronte agli impatti climatici. Inoltre tra le criticità segnalate il regolamento ammette – almeno inizialmente – l’uso di gas naturale liquido (gnl). Anche se su questo l’IMO ha già dichiarato che sarà sempre più penalizzato dopo il 2030.
Tutti i limiti dell’accordo
Nel 2023, l’IMO si era impegnata a raggiungere l’obiettivo di zero emissioni nette entro il 2050. Con degli obiettivi intermedi di riduzione delle emissioni del 30% al 2030 e dell’80% al 2040. Il vertice di aprile avrebbe dovuto stabilire regole chiare e vincolanti per aiutare gli Stati membri a raggiungere tali traguardi. Tuttavia, secondo l’Ong T&E, le misure approvate permetteranno, nel migliore dei casi, di conseguire riduzioni delle emissioni di appena il 10% al 2030 e del 60% al 2040. Ma soprattutto non centreranno l’obiettivo di zero emissioni nette al 2050.
«Le misure adottate salvano il multilateralismo, ma tradiscono il clima», è il commento di Carlo Tritto, Sustainable Fuels Manager di T&E Italia. «L’accordo dell’IMO crea un contesto regolatorio favorevole per l’adozione di carburanti alternativi per il trasporto marittimo. Ciò nonostante saranno i biocarburanti di prima generazione (quelli che sono ricavati direttamente da colture alimentari, nda) a ricevere il maggiore impulso per il prossimo decennio».
Come evidenzia infatti l’analisi di T&E, i fondi generati dal meccanismo di pricing saranno insufficienti ad incentivare i carburanti puliti come gli efuels prodotti da idrogeno verde. Favorendo invece lo sviluppo di biocarburanti che rientrano nei limiti fissati dall’IMO. «Senza criteri più stringenti sulla sostenibilità, olio di palma e di soia diventeranno l’opzione più economica e appetibile. Con il rischio di incrementare la deforestazione e causare un aumento netto delle emissioni invece che una riduzione». In particolare, l’accordo IMO potrebbe causare un aumento delle emissioni di 270 Mt CO2 equivalente nel 2030, rischiando di compromettere l’intero sforzo di decarbonizzazione.
Per i Paesi più poveri il meccanismo IMO è iniquo
Oltre alla partita che si gioca sul campo dei biocarburanti, diversi Stati hanno giudicato iniquo il meccanismo IMO. In particolare, una coalizione di Paesi del Pacifico, dei Caraibi, dell’America Centrale e dell’Africa ha proposto di includere tutte le emissioni nel nuovo quadro, anche quelle extra-settoriali. Proponendo un prelievo universale i cui proventi venissero destinati anche ad azioni di adattamento e mitigazione. Soprattutto nei paesi più colpiti dagli effetti dei cambiamenti climatici.
Ma l’idea ha trovato l’opposizione di Cina, Brasile, Arabia Saudita e altri Stati produttori di petrolio, contrari a un sistema forfettario. Il dietrofront dell’Unione europea, che prima dei negoziati aveva appoggiato la proposta dei paesi più vulnerabili, ha indebolito la maggioranza favorevole al prelievo globale. Ridimensionando così le ambizioni climatiche e la distribuzione equa dei finanziamenti.
L’adozione del meccanismo è attesa per ottobre 2025. Da qui ad allora, tuttavia, restano aperte numerose questioni — dalla sostenibilità dei carburanti alla giustizia climatica — che potrebbero riemergere. E mettere a rischio un processo che, pur con tutte le sue imperfezioni, rappresenta un avanzamento concreto in un settore finora privo di regole climatiche vincolanti.