Possiamo fidarci degli impegni dei big delle fonti fossili?
Energia, trasporti, CO2. E gli intrecci con la finanza. Ogni settimana il punto sui cambiamenti climatici firmato da Andrea Barolini
I fatti: il quotidiano francese Le Monde ha pubblicato un’inchiesta che contiene una pesantissima accusa nei confronti del colosso delle fonti fossili Total. Il gruppo sarebbe responsabile di finanziare, di fatto, la giunta militare al governo nel Myanmar dopo il colpo di Stato del 1 febbraio scorso. Ciò attraverso un sistema definito «opaco», che consentirebbe di far finire nelle casse dello Stato asiatico ingenti somme di denaro.
Due precisazioni: in primo luogo, un’inchiesta giornalistica non è una sentenza di tribunale. In secondo luogo, Total nega ogni addebito, spiega che tutto è stato fatto nelle regole e che la ragione per la quale è ancora nel Myanmar è legata alla volontà di non privare di energia la popolazione locale.
Passo indietro: il 5 maggio del 2020, poco più di un anno fa, Total ha affermato di voler raggiungere la carbon neutrality, l’azzeramento delle emissioni nette di CO2 legate alle proprie attività. Pochi giorni dopo, il 29 dello stesso mese, l’amministratore delegato Patrick Pouyanné ha voluto però precisare (a più riprese) nel corso dell’assemblea generale degli azionisti la differenza tra «l’ambizione» e «l’impegno». Specificando di volersi «impegnare» a livello mondiale solo per le operazioni di cui è responsabile direttamente (in gergo tecnico, gli scope 1 e 2). Lo scope 3 (ciò che è legato all’uso dei prodotti venduti ai clienti) varrà invece solo per l’Europa.
Domanda: a prescindere da quanto sia «ambizioso» (e vincolante) l’obiettivo climatico fissato da Total, perché dovremmo essere convinti della buona volontà ecologista dell’azienda, se la stessa – qualunque sia la ragione – preferisce mantenere rapporti con una dittatura militare che ha preso il potere con la forza e sta reprimendo nel sangue le proteste della popolazione?