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Sorpresa in India: lo smog cala e l’Himalaya riappare. Dopo 30 anni

L'inquinamento da industrializzazione selvaggia aveva nascosto la catena montuosa. Ora il lockdown da coronavirus la fa ricomparire a 200 chilometri di distanza. Tra lo stupore generale

Emanuele Isonio
La vista della catena himalayana resa possibile dal crollo dello smog dopo 14 giorni di chiusura totale delle attività industriale a causa dell'epidemia da SARS-CoV-2
Emanuele Isonio
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La scia globale di morte che il coronavirus sta producendo dietro di sé non permette di parlare compiutamente di good news. Ma lo stupore collettivo che si sta diffondendo fra la popolazione del nord dell’India è come una ventata d’aria fresca. Esattamente la stessa che, dopo una ventina giorni di lockdown imposto da Nuova Delhi alla popolazione per contrastare la diffusione del coronavirus, si respira nel distretto di Jalandhar dello stato del Punjab e ha donato uno spettacolo mai visto da molti: la catena dell’Himalaya innevata, distante 200 chilometri. Così imponente eppure impotente di fronte all’enorme coltre di smog che si era impadronita dell’aria di questa area del Paese.

«Non ho mai visto la catena del Dhauladar (una parte minore del massiccio himalayano, ndr) dal tetto di casa mia a Jalandhar» scrive stupefatto l’ex giocatore di cricket Harbhajan Singh. «Non avrei mai immaginato fosse possibile. Una chiara indicazione dell’impatto che l’inquinamento umano ha provocato sulla Madre Terra».

Gli effetti collaterali del lockdown

In effetti, era molto tempo che ciò non era più possibile: una trentina d’anni, confermano molti testimoni del fatto. «Possiamo vedere chiaramente le montagne innevate dai nostri tetti. E non solo, le stelle sono visibili di notte» spiega l’esponente ambientalista Sant Balbir Singh Seechewal.

L’apparizione è stata resa possibile da un repentino miglioramento della qualità dell’aria nelle ultime settimane. Positivo effetto collaterale del lockdown che, dal 22 marzo scorso, ha imposto la chiusura delle industrie, l’azzeramento dei voli aerei e la drastica riduzione del traffico automobilistico. Sono stati mantenuti operativi solo i servizi essenziali (servizi idrici, elettrici, sanità, negozi di alimentari). Stabilimenti commerciali, fabbriche, officine, uffici, mercati e luoghi di culto sono stati chiusi. Gli autobus e le metropolitane interstatali sono stati sospesi.

Risultato? Nell’area di Jalandhar la qualità dell’aria è stata giudicata “buona” dalle centraline di rilevazione per 16 dei 17 giorni del blocco. Nello stesso periodo del 2019, la stessa qualità si era registrata un solo giorno.

D’altro canto, il miglioramento dei tassi di smog è un evento comune in India (e non solo). Il Consiglio centrale indiano per il controllo dell’inquinamento ha riscontrato una riduzione del 44% dei livelli di smog a Delhi e, più in generale, ha segnalato un andamento positivo in 85 città del Paese. Secondo l’India Today Data Intelligence Unit (DIU) dal 16 al 27 marzo, l’indice della qualità dell’aria è migliorato del 33% in media nel Paese.

In India 21 delle 30 città più inquinate al mondo

Un impatto clamoroso ma facilmente pronosticabile: secondo le analisi del 2019 World Air Quality Report di IQAir, l’India attualmente ospita infatti 21 delle 30 aree urbane più inquinate del mondo, con 6 tra le prime 10.

Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, il limite di sicurezza per la presenza di PM2,5 nell’aria è di 20 mg per metro cubo. L’India, per la maggior parte dell’anno, registra tassi cinque volte più alti (oltre 100 mg/m3).

«Un’indicazione per il futuro»

«Non avrei mai immaginato di vivere un mondo così pulito attorno a me. L’inimmaginabile è successo e dimostra che nulla è impossibile. Dobbiamo lavorare insieme per mantenerlo così» ha proseguito Sant Balbir Singh Seechewal.

Intanto, il coronavirus SARS-CoV-2 ha causato ad oggi poco meno 6000 casi e 169 morti.

Ma l’agenda politica difficilmente cambierà

È invece troppo presto per capire quante morti potranno essere state evitate grazie alla drastica riduzione dei livelli di inquinamento. Ma probabilmente, nemmeno quando l’emergenza coronavirus sarà passata e il lockdown allentato, i temi ambientali saranno in cima all’agenda del premier Narenda Modri, recentemente confermato alle elezioni generali. Ben più preoccupanti agli occhi dell’opinione pubblica locale sono probabilmente gli effetti della guerra commerciale tra USA e Cina e molte questioni irrisolte, a partire dalla mancata modernizzazione di un sistema produttivo largamente informale.

C’è poi il problema della svalutazione della divisa nazionale: negli ultimi anni la rupia si è fortemente deprezzata rispetto al dollaro USA. Un brutto affare, quest’ultimo, che impatta soprattutto sui più poveri. Una fetta di popolazione che, aldilà dei risultati macroeconomici del gigante asiatico, rischiano di aumentare e di pagare l’effetto di una disuguaglianza crescente: una ricerca degli economisti francesi Lucas Chancel e Thomas Piketty ha ad esempio evidenziato come nel 2014, ultimo anno per il quale esistono dati definitivi, l’1% più ricco della popolazione indiana ha incassato il 22% del reddito totale registrato nel Paese, il valore più alto da quasi un secolo. All’inizio degli anni ’80, la quota di reddito nazionale in mano al top 1% si aggirava attorno al 6%.