Uno dei compiti dell’esercito israeliano è impedire la rinascita dello sport in Palestina
La sistematica distruzione di ogni infrastruttura sportiva e il massacro degli atleti servono a impedire che la Palestina possa rialzarsi
Quando si associano gli stadi di calcio alla politica internazionale vengono sempre in mente immagini terribili. La Nazionale italiana che festeggia i trionfi Mondiali del 1934 e del 1938 con i saluti romani. L’Olympiastadion di Berlino brulicante svastiche per le Olimpiadi del 1936. Gli oppositori torturati e ammazzati nell’Estadio Nacional di Santiago del Cile durante il regime di Augusto Pinochet. O a due passi dall’Estadio Monumental di Buenos Aires durante la dittatura della Junta militar, mentre l’Argentina vinceva il suo primo Mondiale e le urla della folla coprivano quelle dei prigionieri. E la situazione in Palestina, alla luce della sanguinosa invasione israeliana della Striscia di Gaza, non è certo diversa.
Tutti ci ricordiamo le atroci immagini circolate lo scorso dicembre. Diversi uomini (tra cui vecchi e bambini che l’Idf definirà pericolosi terroristi) inginocchiati nudi e ammanettati nello stadio Yarmouk di Gaza. Le armi puntate alla loro schiena. O le immagini degli altri stadi di Gaza, una volta luogo di ritrovo e di festa, ridotti in macerie dalle bombe israeliane. Come la maggior parte delle infrastrutture palestinesi, comprese scuole e ospedali.
Ne è rimasto in piedi solo uno: lo stadio al-Dorra, che ora è un immenso campo profughi che ospita oltre diecimila persone, la maggior parte donne e bambini, le cui case sono state ridotte in macerie dall’esercito israeliano. Perché se l’istituzione dello sport da sempre funziona come propaganda politica, lo è anche la sua distruzione totale. Demolire ogni infrastruttura sportiva palestinese e ammazzare i suoi atleti serve a fare in modo che, se e quando il massacro sarà finito, per la Palestina sia ancora più difficile rialzarsi.
Togliere il pallone ai bambini è l’ennesimo crimine contro l’umanità
C’erano 44 squadre suddivise in 4 serie nel Campionato della Striscia di Gaza. Per colpa dell’apartheid israeliano, che impedisce alle persone e quindi ai calciatori di muoversi liberamente nel loro territorio, i campionati palestinesi hanno dovuto dividersi tra Gaza e Cisgiordania. In quello della Striscia l’anno scorso di questi tempi il Khadamat Rafah vinceva il titolo della prima divisione celebrando il trionfo nello Stadio Municipale di Rafah. Oggi l’impianto è in piedi per miracolo, ma tutto intorno sono solo macerie. Mentre il Khan Younis vinceva il titolo di seconda divisione nell’omonimo stadio dell’omonima città. Oggi l’impianto è completamente distrutto.
A gennaio abbiamo seguito il cammino della Nazionale Palestinese alla Coppa d’Asia. Un percorso segnato da lutti e tragedie, in cui alla fine di ogni partita si ricordavano compagni di squadra o allenatori uccisi dall’esercito israeliano. Ma anche un torneo sportivamente magnifico, con la squadra che per la prima volta ha superato il primo turno, per poi essere eliminata dai padroni di casa e futuri vincitori del torneo del Qatar. Il sogno sta proseguendo, con la Nazionale che dopo la Coppa ha preso parte alle qualificazioni per il Mondiale 2026 vincendo due volte contro il Bangladesh a marzo.
Ma anche questo nuovo cammino è funestato dai lutti. A marzo mentre giocavano contro il Bangladesh i calciatori della Nazionale hanno ricevuto la notizia della morte di Mohammed Barakat, oltre cento gol in carriera. Ucciso da un raid israeliano mentre era in casa. I giocatori rimasti in Palestina e sopravvissuti sono sotto le bombe sono fermi. Non possono giocare a calcio figuriamoci uscire. Quelli che erano fuori dalla Striscia già prima di ottobre, e hanno preso parte alla Coppa e alle qualificazioni Mondiali, giocano con il pensiero a casa, da cui ogni giorno arrivano tragiche notizie. Ma morte e distruzione non si limitano al calcio. Tra le oltre trentamila vittime palestinesi di questi mesi molte erano infatti atleti, anche di primo livello.
Distruggere lo sport di un Paese serve a distruggere il suo futuro
Sono diverse centinaia gli sportivi uccisi da Israele. Giocatori di calcio, basket e pallavolo, lottatori e combattenti delle arti marziali, discipline in cui la Palestina eccelle da sempre. E poi atleti, nuotatori e ginnasti. Molti di loro sarebbero dovuti andare alle Olimpiadi, come Nagham Abu Samra, karateka morto due mesi fa dopo che le ferite dei missili israeliani lo avevano lasciato con entrambe le gambe amputate. Per non parlare di allenatori, accompagnatori, dirigenti. Lo sport nella Striscia di Gaza è stato completamente sventrato. Come la terra su cui lo si praticava.
«Lo sport in Palestinese è completamente collassato. E data l’immane scala di morte e distruzione che ha colpito i nostri atleti e le nostre infrastrutture, c’è il rischio che non riusciremo a riprendere attività sportive nella Striscia per i prossimi dieci anni», ha detto al Guardian Nader al-Jayooshi, del Comitato Olimpico Palestinese.
Ma nonostante le ripetute richieste, né la Fifa né il Cio hanno deciso di prendere provvedimenti contro Israele, che a differenza di altre nazioni può continuare a prendere parte a tutte le competizioni. Olimpiadi comprese. Mentre il suo esercito uccide la popolazione palestinese e rade al suolo ogni possibilità di riprendere a fare pratica sportiva. Perché dopo il massacro sia ancora più difficile ritornare a vivere.