Né lira né patrimoniale. Solo la crescita può curare l’Italia
Dal think tank tedesco IFO un assist alla linea Draghi: per la nostra economia in crisi da 25 anni c’è una sola via d’uscita
Solo la crescita economica può salvare l’Italia da un circolo vizioso fatto di debito e declino. Ma attenzione: si tratta di un processo complicato, che necessita di un cambio di rotta a livello politico tanto sul piano nazionale quanto su quello continentale. E si tratta, soprattutto, di un percorso obbligato rispetto al quale non esistono scorciatoie. Parola di Clemens Fuest, economista dell’Università di Monaco e, quel che più conta, presidente dell’IFO, uno dei più influenti think tank tedeschi.
Analisi pacata ma irrimediabilmente impietosa quella diffusa nei giorni scorsi dal centro di ricerca bavarese di impostazione liberista. Il ruolo della crescita torna prepotentemente in primo piano e il pensiero corre inevitabilmente alla dottrina Draghi. L’ex presidente della BCE, d’altra parte, è stato chiaro. Prima o poi «i sussidi finiranno» ha dichiarato nei giorni scorsi al Meeting di Rimini di Comunione e Liberazione. E giù applausi, non solo dalla platea. Perché il principio generale resta ampiamente condiviso, almeno sulla carta. Le misure eccezionali, a partire da quelle monetarie, non potranno durare all’infinito. Solo la ripresa può cambiare realmente il contesto. Ma questa, come noto, è una storia di vecchia data, raccontata da tempo immemore, in buona parte sconfortante.
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L’analisi di Fuest mette a confronto i tassi di crescita registrati da Italia, Germania, Francia e Regno Unito negli anni ’80 e ’90. Fino alla metà dell’ultimo decennio del secolo i ritmi di espansione sono stati molto simili; successivamente il vagone italiano, per così dire, si è sganciato dal convoglio riducendo sensibilmente la sua velocità. Le cause sono molteplici: dal calo della produttività alla crescente pressione concorrenziale della Cina. In questo quadro il pesante debito pubblico è sembrato essere «più un sintomo delle difficoltà economiche che la sua causa».
Belgio batte Italia 50 a 15
Il fatto, sostiene ancora Fuest, è che un elevato indebitamento può rendere un Paese più vulnerabile nelle fasi di crisi (come accade oggi, per altro). Ma ciò non significa che un Paese caratterizzato da un pesante fardello contabile non possa crescere riducendo, al tempo stesso, le sue pendenze. Lo evidenzia il caso del Belgio che dal 1995 al 2007 è riuscito a ridurre il peso del suo debito dal 132% all’87% del Pil. Nello stesso periodo il debito italiano è sceso di soli 16 punti percentuali attestandosi attorno a quota 100%. La differenza sta in larga parte nel denominatore, ovvero nella crescita economica: nell’ultimo quarto di secolo, rileva ancora il presidente dell’IFO, il Pil belga è aumentato del 50%; quello italiano è cresciuto appena del 15%.
Morale: «Dopo la crisi (del 2008, ndr), il Belgio si è ripreso rapidamente, mentre l’Italia è entrata in una dolorosa fase di stagnazione». Un lungo declino favorito da un pesante debito e capace, a sua volta, di ostacolare gli sforzi fiscali orientati al risanamento (che diventano più onerosi e meno efficaci quando l’economia non cresce).
Sei scenari, nessuna soluzione
Il problema, si diceva, è che non ci sono facili vie d’uscita. Nella sua analisi Fuest delinea sei possibili scenari: tutti problematici.
Un’ipotesi (scenario 1) è costituita ad esempio dalla stabilizzazione e dalla successiva riduzione graduale del debito. Al momento, dicono le stime, l’Italia dovrebbe chiudere l’anno in corso con un rapporto debito/Pil a quota 155%. I costi di rifinanziamento, grazie alla BCE, restano molto bassi, il che aiuta. Ma per tornare ai livelli pre crisi – parliamo della crisi da coronavirus, ovviamente – l’economia nazionale, sostiene il presidente IFO, dovrebbe crescere del 2% in più rispetto ai tassi registrati negli anni passati. Un ritmo elevato da tenere per lo meno fino al 2030; un ritmo difficile da immaginare («si tratta di un’ipotesi molto ottimistica»).
Certo, replicherà qualcuno, il debito si potrebbe anche tagliare (scenario 2). Tradotto: fare default cancellando parte delle pendenze. Ma è davvero un’ipotesi sostenibile? No, replica Fuest, sottolineando gli enormi costi per i creditori più esposti: le banche italiane (che hanno in cassa 290 miliardi di titoli), gli istituti stranieri (450 miliardi) e gli stessi risparmiatori della Penisola (100 miliardi senza contare la loro esposizione indiretta attraverso i fondi di investimento).
Patrimoniale? Impossibile
La terza ipotesi (scenario 3) è un evergreen: la cara e vecchia patrimoniale. La tentazione è forte, perché i risparmiatori italiani, si sa, sono in valore assoluto tra i più ricchi del Pianeta. Ma i problemi sono palesi: «Se applicata anche ai titoli finanziari e alla ricchezza mobile, la tassa porterebbe a una fuga di capitali aggravando la crisi economica in Italia» scrive Fuest. E non è tutto: «Poiché i grandi patrimoni sono spesso legati alle aziende, l’imposta graverebbe sulle imprese che dovrebbero effettivamente investire e creare posti di lavoro. Per evitare l’emorragia di capitali, la tassa potrebbe essere limitata ai beni immobiliari. In tal caso, però, dovrebbe essere proporzionalmente più alta. E a quel punto diventerebbe difficile per lo Stato negoziare la cancellazione del debito solo a spese dei proprietari di immobili».
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Per quanto di difficile realizzazione, per tacere delle previsioni non necessariamente ottimistiche sul gettito previsto (non più di 6 miliardi di euro, secondo la previsione fatta per Valori.it dall’economista Alessandro Santoro), l’ipotesi della patrimoniale continua a influenzare l’opinione pubblica europea. Possibile (scenario 4) che i Paesi UE accettino di farsi carico di parte del debito italiano di fronte al rifiuto del governo di scaricare il costo della cancellazione sui suoi contribuenti? Ovviamente no. E se a farsi carico del debito fosse la BCE (scenario 5)? In parte, almeno in un certo senso, la cosa sta già accadendo. Ma l’acquisto titoli a tempo indeterminato non convince Fuest. «Il piano di lasciare il debito pubblico nelle casseforti delle banche centrali funziona solo se si crede che la massa monetaria possa essere ampliata a piacimento» sottolinea. «Ma questo non è possibile. Chiunque ci provi provocherà una svalutazione monetaria inflazionistica».
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Quanto all’uscita dall’euro (scenario 6) e al conseguente ritorno alla lira meglio soprassedere. «Le conseguenze pratiche di un tale passo – dalla destabilizzazione politica ed economica del Paese fino alle imprevedibili controversie legali – rendono questa opzione molto poco attraente» dichiara Fuest. Storia nota, poco da aggiungere. Se non che la svalutazione della moneta non implicherebbe solo un’inevitabile default su un debito che resterebbe espresso in euro (visto che in euro è stato contratto). Ma anche una crescita dei costi di finanziamento futuri, senza contare – a quel punto – l’assenza più che giustificata di qualsivoglia sponda da parte della BCE.
La lista degli scenari si conclude qui. E nessuna ipotesi appare praticabile. Ma il problema è che le strategie di crescita non sono affatto definite, né in Italia né nel resto d’Europa. «Nei prossimi anni si prevedono notevoli tensioni nell’area dell’euro» conclude il presidente dell’IFO. «L’Italia non è l’unico Paese chiamato ad affrontare sfide finanziarie. Molto dipenderà dalla capacità dell’Europa nel suo complesso di riuscire a realizzare una ripresa economica il più presto possibile». Già, chissà quando.