«Anche nel Terzo settore la partecipazione delle donne deve crescere»

Il gender gap non risparmia ong e associazioni. Intervista a Claudia Fiaschi, per anni portavoce del Forum Terzo settore

Barbara Setti
Claudia Fiaschi è portavoce del Forum Terzo settore
Barbara Setti
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Neppure il Terzo settore è esente da problemi di disparità di genere. Benché il numero delle donne impiegate sia particolarmente alto, le posizioni dirigenziali spesso sono occupate da uomini. Eppure, puntare du di loro significa sfruttare la loro grande capacità trasformativa e generativa. La fotografia tracciata da Claudia Fiaschi, per anni portavoce del Forum del Terzo settore.

In Italia, nel Terzo settore, le donne partecipano in un grado molto più elevato che gli uomini, sia a livello di volontarie che di lavoratrici. Ci può fornire qualche dato?

I dati della partecipazione femminile al mondo del Terzo settore sono molto alti. Quasi 2 milioni di volontarie e quasi 700mila lavoratrici su 850mila ci raccontano che le donne sono fortemente impegnate in questo ambito. Se leggiamo i dati precedenti al Covid, vediamo come negli ultimi 10 anni il numero delle donne volontarie sia cresciuto del 25% e quello delle addette dell’11,7%. Questo perché il Terzo settore è un mondo nel quale – complici gli ambiti di intervento, che sono tradizionalmente quelli in cui le donne si spendono maggiormente, ma anche un tipo di contesto che permette forme di impegno più concilianti rispetto ai ritmi del lavoro – i dati sono fortemente positivi.

Al contrario però, se andiamo a vedere i dati dei ruoli apicali, soprattutto in alcuni settori, le cose cambiano. Ci troviamo davanti a una maggiore presenza maschile a scapito di quella femminile. Unica eccezione è nel mondo della cooperazione internazionale dove il 30,9% degli incarichi di dirigenza e presidenza viene ricoperto da donne (dati Open Cooperazione).

Sembra paradossale che, in un settore a così alta prevalenza femminile, la governance sia ancora fortemente maschile. Come possiamo interpretare questo dato?

La situazione, in generale, rende evidente che c’è ancora molto lavoro da fare per ottenere una vera e propria parità di genere nei ruoli dirigenziali. Ci racconta anche della reticenza delle donne rispetto alla consapevolezza e dell’assunzione di responsabilità, ossia alla capacità di occupare spazi “di potere”, senza autolimitarsi.

Il Terzo settore su questo aspetto ha una grande consapevolezza e un grande impegno. Il contrasto alle disuguaglianze è un obiettivo fondamentale per le nostre organizzazioni, che dimostrano coscienza del valore delle donne nel promuovere cambiamenti sociali e sviluppo economico nelle comunità. Soprattutto nei contesti più fragili del nostro Paese e del mondo. Non a caso il 63% dei soci del Forum Nazionale del Terzo Settore, in base a quanto emerso dal secondo rapporto “Il Terzo settore e gli Obiettivi di sviluppo sostenibile”, è attivo con progetti che promuovono l’uguaglianza di genere.

Avverte che ci sia un cambiamento, negli ultimi anni? Sta aumentano la governance femminile nelle imprese del Terzo settore?

Penso a quello che è accaduto durante i mesi di pandemia, che può rappresentare un esempio interessante. Come è successo a moltissime persone, si sono trovate ferme anche molte imprese che stavamo seguendo con il nostro progetto dei Cantieri ViceVersa; questo mette in dialogo Terzo settore e operatori finanziari per studiare strumenti che permettano alle organizzazioni di avere un maggiore impatto dalla propria azione.

Alcune di queste cooperative e imprese, costituite prevalentemente, da donne, non hanno lasciato che questa crisi interrompesse le loro attività, e si sono riconvertite rapidamente e con creatività. Penso ad esempio una sartoria sociale che ha cominciato rapidamente a produrre mascherine chirurgiche, in un momento in cui, tra l’altro, erano introvabili.

C’è una caratterizzazione nello stile della leadership femminile?

Le donne hanno una grande capacità trasformativa e generativa che certamente senza la loro presenza in ruoli apicali non può che crescere. Allo stesso tempo questa capacità deve essere sostenuta, accompagnando le donne con percorsi di consapevolezza e adeguata formazione, specialmente in ambito economico e finanziario. Un talento artigianale o produttivo può arrivare lontano, ma deve essere guidato dalla capacità di padroneggiare strumenti di economia e finanza.

Le donne, più degli uomini, svolgono questa funzione transitiva per la loro capacità di trasferire nelle comunità le competenze acquisite e renderle facilmente fruibili a tutti, e questo permette di accrescere notevolmente le competenze dell’intera comunità.

Quali sono gli ostacoli che rendono, a suo avviso, difficile per le donne affermarsi negli enti del Terzo settore?

Credo che ci siano molti aspetti che possono favorire o meno una maggiore presenza femminile in ruoli dirigenziali nel Terzo settore. Certamente il tema della consapevolezza, propria delle donne, di assumere ruoli apicali senza sentire sulle spalle il peso sociale e culturale di questa scelta. C’è bisogno che siano creati spazi adeguati e soprattutto che si affermi una cultura che valorizzi il diversity management, un approccio inclusivo della diversità. Questa non può che migliorare la visione, il valore e l’efficienza di una organizzazione. Questo vale per tutte le realtà, e ancor più per il Terzo settore.

Lo sguardo delle donne inserito nei contesti di leadership migliora la visione complessiva dell’organizzazione perché ne accresce il quadro delle sensibilità. Non ultimo, per arrivare a un approccio realmente inclusivo e di scambio, è necessario investire nell’educazione e nella formazione degli uomini. Solo se gli uomini riconoscono il talento delle donne e credono che il mix dei talenti porti risultati, percorreremo la strada per l’emancipazione.