La guerra del petrolio colpisce gli USA e i mercati
L'Arabia Saudita rompe con la Russia e alimenta il crollo dei prezzi. La crisi delle aziende USA può scatenare un terremoto nel mercato dei bond
Allora, ricapitoliamo: lunedì 9 marzo il barile di petrolio è arrivato a perdere circa il 30% del suo valore sul mercato, il calo più significativo dal gennaio 1991. Dietro al crollo la rottura dell’accordo tra Russia e Arabia Saudita e la conseguente decisione di quest’ultima di incrementare la produzione giornaliera a 12,3 milioni di barili contro i 9,7 attuali. Mercoledì il governo di Riyad ha chiesto alla compagnia di Stato Saudi Aramco di innalzare ulteriormente la sua capacità produttiva a 13 milioni di unità. Morale: la guerra dei prezzi – spinti al ribasso dall’eccesso di offerta – è ufficialmente iniziata e per l’economia globale, date le circostanze, non esattamente una lieta novella.
Oil war. pic.twitter.com/pq69eGUzeB
— Tjeerd Royaards (@Royaards) March 10, 2020
Il super cartello del petrolio
Formalizzato nel 2017, il super cartello noto come OPEC Plus – che riunisce i 14 Paesi della storica organizzazione guidata dall’Arabia Saudita e altri dieci produttori esterni, Russia in primis – ha condotto per anni una politica di sostegno ai prezzi tagliando più volte la produzione. I sauditi, è noto, avevano invocato il prolungamento dell’accordo chiedendo ulteriori riduzioni di output e scontrandosi, nell’occasione, con il crescente malcontento di Mosca. L’intesa, giunta alla sua naturale scadenza nel marzo 2020, non è stata rinnovata. E a quel punto Riyad ha avviato il piano B: fare esattamente l’opposto di quanto chiesto, inondando il mercato di barili supplementari.
Una mossa contro gli USA
Sembra un controsenso, ma ovviamente non lo è. La verità è che i sauditi hanno semplicemente deciso di passare all’attacco sfidando Mosca sul terreno dei prezzi. L’aumento della produzione, associato al calo della domanda globale per l’emergenza Coronavirus e agli spettri della recessione, produrrà danni per tutti. Solo che Riyad ha gli strumenti per sopravvivere e, di conseguenza, per consolidare la sua leadership di mercato. L’obiettivo di breve termine è quello di ricondurre Mosca a più miti consigli. Ma il vero scopo è quello di mettere in seria difficoltà il vero grande nemico del settore: gli Stati Uniti. E qui, nel marasma generale, i conti iniziano a tornare.
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Il boom del petrolio USA
Negli ultimi due anni, dicono i dati dell’International Energy Agency (IEA), la produzione di petrolio nel mondo si è mantenuta sostanzialmente invariata. In questo stesso periodo le forniture Opec si sono ridotte di 2 milioni di barili al giorno a beneficio dei produttori esterni al cartello allargato. La produzione statunitense, in particolare, ha raggiunto livelli record fino a superare nel 2019 la quota media di 12 milioni di barili giornalieri. La crescita USA è stata alimentata per anni dal boom dello shale oil, il petrolio estratto attraverso la frantumazione (fracking) delle rocce bituminose. Un comparto promettente, viste le enormi riserve a disposizione, ma anche fragile a fronte degli elevati costi di estrazione. E il nodo è ovviamente tutto qui.
La teoria dell’ultimo barile
Nel 2014, quando l’Opec lanciò un’offensiva al ribasso, il segmento fu sul punto di implodere. Ma la successiva risalita dei prezzi e la crescente concentrazione del settore (leggi economie di scala, riduzione dei costi produttivi e aumento dell’efficienza) avrebbero contribuito al rilancio. Il fatto, però, è che a 30 dollari al barile si fatica ad andare avanti. E per la maggior parte dei produttori le perdite sono dietro l’angolo. È la logica della nota profezia saudita: in un futuro fatto di decarbonizzazione e transizione energetica la domanda globale finirà per calare. E l’ultimo barile in vendita sarà il meno caro. Tradotto: sarà stato estratto nel deserto saudita non in qualche bacino texano.
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Shale oil in territorio spazzatura
«Nei mercati scorrerà il sangue» ha dichiarato al Financial Times John McClain, portfolio manager di Diamond Hill Capital Management. Il riferimento corre al settore obbligazionario gonfiatosi negli anni grazie ai bassi tassi di interesse e alla massiccia ondata di investimenti (che implicano indebitabitamento) da parte degli operatori del settore shale. Le emissioni delle società del mercato energetico rappresentano oggi l’11% del mercato USA dei junk bonds, i titoli spazzatura che hanno, in estrema sintesi, un elevato rischio default. I prezzi delle obbligazioni, sottolinea il quotidiano britannico, stanno calando, segno che gli investitori si fidano sempre meno della solvibilità delle aziende stesse.
Rischi per tutti
A guardare con preoccupazione al futuro, però, non sono solo i produttori USA. Mosca ha notoriamente mostrato i muscoli ricordando in questi giorni che il suo fondo sovrano ha a disposizioni asset liquidi per 150 miliardi di dollari. Tali riserve, sostengono i russi, dovrebbero consentire al Paese di bilanciare le perdite sul mercato petrolifero per almeno sei anni. Ma l’economia russa sperimenta una crescita modesta e l’enorme peso del petrolio – che ancora due anni fa garantiva il 60% dei ricavi sulle esportazioni – fa pensare a ricadute inevitabili.
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Nubi all’orizzonte anche per la compagnia nazionale messicana Pemex che, dopo aver fatto segnare una perdita da 9 miliardi di dollari nell’ultimo trimestre del 2019, deve fronteggiare i rischi cronici del suo maxi indebitamento (106 miliardi il dato registrato la scorsa estate). Per le economie petrolifere del Golfo parlano da sole le Borse locali che, non a caso, hanno reagito malissimo al divorzio Mosca-Riyad. Un monito per i mercati finanziari globali già colpiti dal panico recessione. Un ennesimo segnale di instabilità quando meno ce ne sarebbe bisogno.