Tutti i punti deboli della legge di bilancio del governo Meloni
La legge di bilancio del governo guidato da Giorgia Meloni presenta alcuni vizi di fondo di natura sostanziale
La legge di bilancio sembra pronta e, a mio parere, presenta alcuni vizi di fondo di natura sostanziale. Il primo è costituito dal fatto che, su 24 miliardi di spesa, quasi 16 sono coperti con la contrazione di nuovo debito. Una simile copertura deve avvenire in presenza di varie criticità.
Una manovra finanziaria scoperta che si affida ai mercati
La Banca Centrale Europea (BCE) ha infatti cessato gli acquisti di nuovo debito. Nel 2024 inoltre scadranno, definitivamente, anche i rinnovi del debito in scadenza, contratto per finanziare le misure anti Covid. Inoltre, l’intera legge di bilancio si regge sulla possibilità di creare nuovo debito perché immagina una stima di crescita del prodotto interno lordo (Pil) dell’1,2%, mentre tutte le valutazioni espresse da vari istituti fermano la crescita italiana allo 0,5-0,7%.
Dunque, se non si avverasse la previsione del governo e la crescita del Pil fosse più bassa, la sostenibilità del debito italiano peggiorerebbe. Ciò obbligherebbe a pagare interessi più alti, con una riduzione evidente delle risorse disponibili per coprire altre spese pubbliche. Non è certo un caso che la stessa legge di bilancio stabilisca che i Buoni del Tesoro italiani resteranno fuori dal calcolo Isee, alterando così in maniera palese il dettato costituzionale della progressività fiscale.
In estrema sintesi, siamo di fronte ad una legge di bilancio che è largamente scoperta e si affida ai mercati per coprire il proprio fabbisogno, senza sapere in realtà fino in fondo quanto costerà la copertura. Una condizione tutt’altro che favorevole in un contesto inflazionistico e con un mercato dei titoli di Stato affollatissimo dalle offerte degli Stati Uniti e delle principali economie europee.
Tutto ciò che manca nella legge di bilancio
Forse stiamo facendo un salto nel vuoto. E qui si affaccia il secondo vizio di fondo della legge. Sui 24 miliardi complessivi, una decina sono indirizzati ai rinnovi contrattuali perché, oltre ai 7 specificatamente previsti in tal senso, si aggiunge buona parte dei 3 miliardi destinati alla sanità che serviranno per rinnovi e miglioramenti contrattuali del personale sanitario. Ora, è davvero singolare coprire atti dovuti come i rinnovi dei contratti nazionali con forme di rischioso e costoso indebitamento. Si ha, di nuovo, l’impressione di una manovra assai barcollante nelle sue linee fondamentali.
Non ci sono, infatti, coperture determinate da un maggior gettito fiscale se si escludono la cedolare secca portata al 26%, aliquota che non fa altro che equipararla alla rendita finanziaria, e il parziale appesantimento di alcune voci dell’Iva. Sono più consistenti invece i mancati adeguamenti di fasce significative di salari e pensioni all’aumento del costo della vita e la cancellazione di alcune detrazioni. Tali voci hanno però il carattere di ridurre le spese piuttosto che fornire vere coperture, affidate – come detto – al debito.
In ultima analisi, l’impressione che si ricava dalla legge di bilancio è quella di un grande azzardo che si qualifica piuttosto per ciò che non contiene piuttosto che per ciò che esprime. Mancano infatti misure in grado di superare i privilegi di numerose corporazioni, di aggredire le rendite finanziarie, di introdurre forme di imposizione sui grandi patrimoni.
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Forse, a tutto ciò, si lega anche l’idea della elezione diretta del presidente del Consiglio. In un Paese dove domina ormai l’astensionismo e il voto non è veicolato dai partiti ma dalle corporazioni, tutelare gli interessi di una fascia limitata della popolazione (ma decisamente motivata a votare) può essere assai più funzionale rispetto al tentativo di portare a votare gli astenuti. Una forma di Stato con un o una leader massimi, votati dal plebiscito della minoranza organizzata. In un orizzonte così, la legge di bilancio deve solo fare il minimo, esponendosi anche al rischio dei mercati. Corporazioni e beneficiati dall’assenza di imposte garantiranno il voto “popolare”.