L’esercito dell’agroindustria alla Cop30
Chi erano e quanti erano i lobbisti dell'agroindustria alla Cop 30? Cosa chiedevano? Quali aziende rappresentavano?
Nella Cop che celebrava il decennale dell’Accordo di Parigi non poteva mancare all’appello la lobby del settore responsabile di un terzo delle emissioni globali. L’agroindustria ha fatto il suo ingresso alla Cop30 in pompa magna. 302 i lobbisti presenti, il 14% in più rispetto all’anno scorso. E se vi sembra un aumento risibile, tenete presente che è il 71% in più rispetto alla Cop27, appena tre anni fa.
I lobbisti dell’agroindustria presenti alla Cop30 che si è tenuta a Belém dal 10 al 29 novembre, per rendere l’idea delle proporzioni, erano più dei delegati del governo del Canada alla Conferenza, cioè 220. Ma c’è di più: un lobbista su quattro a Belém portava al collo il badge di una delegazione nazionale. Non è un dato da poco: vuol dire che, insieme ai rappresentanti dei governi, poteva sedersi in posizione privilegiata ai tavoli di negoziato. Il Paese che ospitava questa Cop, il Brasile, aveva il numero più alto di lobbisti agricoli nella sua delegazione ufficiale: ventisei.
Cosa ci facevano tutti questi lobbisti alla Cop30?
Provavano a bloccare gli interventi che avrebbero potuto trasformare uno dei settori più climateranti del mondo. Di tutte le emissioni di gas serra, infatti, i sistemi alimentari ne determinano un terzo a livello globale. Di questo terzo, circa il 60% deriva dall’agricoltura animale, in particolare dall’allevamento. Il mondo della scienza e quello delle organizzazioni ambientaliste hanno più volte sottolineato che, senza un cambiamento radicale del sistema alimentare, non è possibile raggiungere gli obiettivi dell’Accordo di Parigi, ovvero mantenere l’aumento della temperatura media globale al di sotto dei 2 gradi centigradi, restando il più possibile vicino agli 1,5.
Proprio nell’Amazzonia e nel Cerrado brasiliano, del resto, l’agroindustria è la principale causa di deforestazione. Con 240 milioni di capi di bestiame allevati, e la conseguente produzione di soia per nutrirli, agricoltura e cambiamento di uso dei suoli sono responsabili della maggior parte delle emissioni di gas serra del Paese.
L’obiettivo ideologico di costruire una narrazione diversa dell’agroindustria
Le aziende presenti a Belém rappresentavano settori chiave come l’allevamento industriale di bestiame, la coltivazione di cereali e la produzione di pesticidi. Le loro attività avevano l’obiettivo di promuovere una narrazione diversa dell’agroindustria, trasformandone il ruolo: non più causa ma anzi, possibile soluzione per la crisi climatica. Un’operazione fortemente ideologica, basata su una retorica che esalta le innovazioni tecnologiche molto più degli interventi politici.
Lo si vedeva chiaramente guardando l’Agrizone, il padiglione creato da Embrapa – ente pubblico brasiliano, ma emblematicamente finanziato da giganti dell’agribusiness come Nestlé, Bayer e la Fondazione Gates. Presentata e raccontata come un grande centro per l’innovazione e la sostenibilità agricola, è stata teatro di eventi, workshop tecnici, dibattiti e dimostrazioni di agricoltura «a basse emissioni», esibendo prodotti e pratiche come sistemi zootecnici rigenerativi, colture biocompatibili, bioeconomia e certificazioni «low-carbon». Uno spazio in cui faticava a sentire le voci dei piccoli agricoltori, delle comunità indigene e delle popolazioni tradizionali, messe in secondo piano, soffocate da una retorica green costruita dai grandi attori del settore.
Chi erano i lobbisti dell’agroindustria alla Cop30?
Tra le aziende che hanno esercitato la loro influenza alla Cop30, spicca JBS, il più grande produttore mondiale di carne bovina. L’azienda, che ha avuto 8 delegati (incluso il Ceo Gilberto Tomazoni) alla Cop30, è una delle 45 maggiori aziende produttrici di carne e latticini. Le sue emissioni, da sole, sono pari a quelle dell’intera Arabia Saudita. Se combinate con quelle di Mbrf e Minerva, due grandi aziende brasiliane di carne presenti con propri delegati alla Cop, eguagliano quelle del gigante petrolifero British Petroleum.
C’è poi Bayer, il gigante dei pesticidi, che aveva la delegazione più nutrita, con 19 lobbisti, e sponsor chiave dell’Agrizone. Insieme a Nestlé, colosso alimentare al centro di numerosi scandali, in Francia. Sono tanti, e sono presenti in maniera tanto pervasiva che, come ha commentato Lidy Nacpil dell’Asian Peoples’ Movement on Debt and Development, «la Cop non fornirà mai una vera azione per il clima finché ai lobbisti dell’industria è permesso influenzare i governi e i negoziatori».
Il trucco contabile della GWP
Gran parte degli sforzi dell’agroindustria si sono concentrati su aree altamente tecniche, progettate di fatto per conservare il business as usual. Una delle spinte più strategiche è stata su una metrica di contabilizzazione del metano chiamata GWP, Global Warming Potential. Il metano è uno dei gas climalteranti più potenti, ma ha una permanenza in atmosfera molto più breve rispetto alla CO2. Questo però non gli impedisce di contribuire in modo significativo al riscaldamento globale: anche in un periodo di tempo limitato, il suo effetto sul clima è intenso e duraturo, e i suoi impatti non si esauriscono con la sua scomparsa dall’atmosfera.
Questa premessa è necessaria per spiegare la GWP che, appunto, prevede di misurare il metano non al momento della sua emissione, ma conteggiandone le variazioni nel tempo. Insomma, nient’altro che un «trucco contabile». Trucco che però potrebbe consentire ai grandi inquinatori di dichiarare la neutralità climatica – o addirittura emissioni negative. Con dati del genere, sarebbe possibile evitare i tagli strutturali – come ridurre il numero di capi di bestiame – che invece sono necessari.
Il lavoro alla Cop è solo una tappa di pressioni quotidiane
Il lavoro fatto alla Cop dalle lobby agroindustriali è solo una tappa di pressioni quotidiane sui governi a tutti i livelli. In Brasile la Confederazione Nazionale dell’Agricoltura (30 delegati a questa Cop) ha storicamente sostenuto leggi antiambientali, tentato di annullare la moratoria sulla soia e spinto per la legalizzazione di terre deforestate illegalmente.
Quotidiano è anche l’impegno per l’altro settore oggetto di attività di pressione: il meccanismo di credito globale delle Nazioni Uniti. L’articolo 6 dell’Accordo di Parigi prevede infatti la possibilità, per i grandi emettitori, di compensare l’inquinamento emesso. Le lobby agroindustriali sostengono che i carbon credit siano uno strumento vitale per il finanziamento climatico. Tuttavia, gli oppositori temono che l’enfasi sull’offset (compensazione) sia di fatto un via libera per continuare a inquinare, ritardare la decarbonizzazione e sfruttare, al contempo, terre e risorse del Sud globale per camuffare quest’assenza di azione utile e incisiva.
Il futuro del Pianeta dipende dalla capacità di distinguere le soluzioni reali dal greenwashing
Come ha scritto Federica Ferrario, responsabile delle campagne di Terra!, nei giorni della Cop30, «la posta in gioco a Belém non potrebbe essere più alta. Come dimostrano numerosi studi, senza una trasformazione profonda dei sistemi alimentari, e senza una riduzione significativa di produzione e consumo di carne – in particolare nei Paesi ricchi e a medio reddito – gli obiettivi dell’Accordo di Parigi rimarranno irraggiungibili».
A preoccupare l’attivista non erano solo i negoziati tra Stati riuniti a Belém, «ma anche la battaglia, più sottile ma ugualmente cruciale, contro le narrazioni ingannevoli che rischiano di minare dalla base ogni reale progresso nella lotta al cambiamento climatico». «Il futuro del nostro Pianeta – conclude Ferrario – potrebbe dipendere dalla capacità di distinguere le soluzioni reali dal mero greenwashing, oltre che dal via libera a scelte politiche coraggiose, che non possono più attendere».




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