L’Onu: «Il sistema finanziario cambi o addio sviluppo sostenibile»

Le Nazioni Unite invocano riforme della finanza globale per non fallire gli obiettivi di sviluppo sostenibile. Debito, disuguaglianza e clima nel mirino

Matteo Cavallito
La finanza può giocare un ruolo cruciale nel rendere il mondo sostenibile © metamoworks/iStockPhoto
Matteo Cavallito
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Il sistema finanziario globale cambi rotta alla svelta se non vuole scordarsi gli obiettivi di sviluppo sostenibile. Parola dell’Onu che, in un rapporto redatto insieme ad altre 60 agenzie e diffuso nei giorni scorsi, ha puntato il dito contro le politiche in atto e i rischi di tenuta del sistema nel suo complesso. «Il mondo non può raggiungere questi obiettivi (in sintesi: fine della povertà e della fame nel mondo con una spesa prevista di 11.500 miliardi di dollari l’anno, ndr) senza una svolta sostanziale nelle gestione del sistema finanziario internazionale che consenta di affrontare le minacce più urgenti» ha dichiarato il vicesegretario generale Amina Mohammed nel corso di una conferenza stampa.

Parole pesanti in un contesto sempre più problematico: la crescita globale (+3% nel 2019 secondo le ultime stime) non basta. Pesano le tensioni commerciali – «oltre mezzo trilione di dollari il valore dei beni sottoposti a dazi, sette volte tanto rispetto a un anno fa» – mentre per i Paesi più indebitati il rischio bancarotta tende inevitabilmente a crescere. Male, molto male dunque. E non avete ancora sentito niente.

Onu: gli investimenti non bastano

Il campo di gioco è enorme – dal commercio globale alle tasse, passando per la gestione dei debiti sovrani – e le indicazioni non sono da meno. Agire a livello nazionale e internazionale; gestire al meglio le tecnologie e i piani di finanziamento; puntare al medio-lungo periodo disincentivando la ricerca dei profitti a breve termine. Una rivoluzione insomma.

Il fatto, sottolinea il rapporto, è che per raggiungere gli obiettivi di sviluppo non basta incrementare gli investimenti.

Tutto dipende «da sistemi finanziari di sostegno e da un contesto politico globale e nazionale favorevole» affermano i ricercatori. Ma il problema è che le condizioni idonee del passato stanno cambiando. «I rapidi cambiamenti tecnologici, geopolitici e climatici stanno modificando l’economia e la società, e le istituzioni nazionali e multilaterali esistenti cercano a fatica di adattarsi». In questo contesto cresce soprattutto la disuguaglianza, un fenomeno difficile da arginare. Anche per colpa di un sistema fiscale inadeguato.

Le tasse generano disuguaglianza

Nei Paesi avanzati, nota il rapporto, la tassazione progressiva riesce in media a bilanciare circa un terzo del gap reddituale prodotto dal mercato. Nelle nazioni in via di sviluppo, invece, la redistribuzione fiscale è molto più limitata mentre i programmi di welfare non riescono a venire incontro alle esigenze dei ceti sociali più vulnerabili. Ma il problema resta generale. Nei Paesi OCSE – semplificando, nelle nazioni più sviluppate – il carattere progressivo della tassazione (semplificando: più tasse per i ricchi, meno per i poveri) è in discesa da oltre tre decenni. Dal 1981 al 2015, ad esempio, l’aliquota media sui redditi più alti è passata dal 62% al 35%.

E poi c’è il problema dell’elusione, la capacità delle imprese più grandi di pagare tasse molto basse in modo del tutto legale sfruttando i limiti normativi del diritto nazionale e internazionale. Dal 2000 ad oggi, ha ricordato un recente rapporto di Oxfam, l’aliquota effettiva sul reddito d’impresa delle 90 maggiori multinazionali è scesa dal 34% al 24%. Il problema è patito soprattutto nelle economie emergenti dove le imposte sulle aziende contribuiscono maggiormente alle entrate tributarie. Ma quello dell’elusione, come noto, è un fenomeno diffuso ovunque e da cui le economie avanzate non sono certo indenni.

Il debito? Non è sostenibile

Il debito continua a crescere quasi ovunque toccando, nei Paesi emergenti, livelli preoccupanti tutto simili a quelli raggiunti negli anni ’80, il decennio horribilis delle finanze pubbliche. Nelle nazioni in via di sviluppo il debito pubblico supera ormai quota 50% del Pil, contro il 36% medio registrato appena 5 anni prima. E non solo: preoccupa la diffusione di nuove forme di finanziamento (con il pensiero che corre implicitamente alla Cina), la crescita dei debiti privati di famiglie e imprese e, ovviamente, l’aumento delle pendenze con l’estero, soggette al giogo della variabilità dei tassi.

I Paesi più poveri, rileva lo studio, hanno beneficiato delle iniziative di cancellazione del debito all’inizio del XXI secolo. Ma l’operazione – utile ma notoriamente poco risolutiva – non ha frenato il successivo boom dei prestiti. Morale: il debito dei nazioni meno sviluppate è in crescita dal 2012 e vale oggi, in media, il 46% del prodotto nazionale di queste ultime.

«Clima: il rischio più importante»

Nel 2017 le emissioni di gas serra sono aumentate dell’1,3% ricordano i ricercatori. E a conti fatti si tratta del dato più inquietante di tutti. «Quello climatico è il rischio sistemico più importante per l’immediato futuro – si legge nel rapporto – ma il climate change procede più rapidamente rispetto agli sforzi condotti per affrontare il problema». Per questo servono impegni più ambiziosi per contenere il riscaldamento del Pianeta, dicono i ricercatori. Ma anche qui non mancano i problemi.

Fonte: World Bank in United Nations, Inter-agency Task Force on Financing for Development, “Financing For Sustainable Development Report 2019”

Ne è un esempio, tra gli altri, la tassazione delle emissioni di CO2. Nel 2018, ricorda il rapporto era in vigore in soli 21 Paesi e le ampie esenzioni concesse alimentano molti dubbi sull’efficacia della misura. In Giappone e in Norvegia, ad esempio, l’imposta copre circa due terzi delle emissioni. In Spagna e in Polonia meno del 5%. La strada, per il momento, è ancora in salita.