«Quando c’era Lui la canapa cresceva bene». Ascesa e declino di un Made in Italy dimenticato
La canapa italiana è stata in auge dal XVI secolo al Fascismo (compreso). Concorrenza e proibizionismo l'avevano annichilita. Oggi sta rinascendo
I proibizionisti più nostalgici (sì, proprio in quel senso) si sentiranno forse in imbarazzo, eppure c’è stato un tempo (sì, proprio quel tempo) in cui la canapa italiana viveva ancora un discreto momento di gloria. Fa un certo effetto – e ci mancherebbe altro – osservare l’inconfondibile foglia appuntita sotto il filtro sgranato in bianco e nero dell’Istituto Luce, macchina propagandistica della dittatura, oggi museo involontario della retorica di regime.
E fa sorridere, ovvio, confrontare la storica narrazione allarmista e intransigente della Destra italiana («non esiste distinzione tra droghe leggere e pesanti», quante volte lo hanno ripetuto?) con la voce fuori campo dell’orribile tempo che fu che declama con enfasi d’ordinanza le virtù dell’«italianissima» (Sic) e autarchica fibra tessile.
Stiamo scherzando ovviamente. Per quanto di moda, la retorica revisionista “ha-fatto-anche-cose-buone” non ci appartiene minimamente. Ma la questione di fondo è tremendamente seria. Soprattutto di questi tempi, tra incertezza normativa e prospettive di rilancio di un’intera filiera. Che, è il caso di dirlo, ha radici molto profonde.
La canapa italiana figlia della globalizzazione
L’ascesa della canapa italiana, tanto per sgombrare definitivamente il campo dagli equivoci, non inizia certo con il Ventennio. Risale al XVI secolo e deve il suo successo all’opposto concettuale dell’autarchia: la globalizzazione. La scoperta dell’America e l’avvio dei viaggi transoceanici, scrivono gli autori de “Una fibra versatile. La canapa in Italia dal Medioevo al Novecento”, il saggio pubblicato nel 2005 dalla CLUEB di Bologna, da cui abbiamo tratto la maggior parte delle informazioni che seguono, sposta gli equilibri economici della Penisola. Le repubbliche marinare affrontano il declino, la città felsinea «dove nessun mercante ha mai immaginato di armare una caracca» diventa il principale centro produttivo della materia prima necessaria a realizzare le vele delle navi e le corde che le muovono.
E, siccome queste ultime vanno sostituite praticamente ad ogni viaggio, ecco che il circolo virtuoso dell’economia non smette di autoalimentarsi. I ricavi delle traversate, che hanno condotto a Londra e a Rotterdam le ricchezze sottratte nel Nuovo Mondo, vengono trasferiti in parte «da un negoziante internazionale, alla borsa di un patrizio bolognese che, dal parco di una villa sontuosa controlla, attraverso il fattore, l’immane fatica delle dieci, venti famiglie mezzadrili che, nei propri poderi, coltivano la canapa su un terzo, mediamente, della superficie».
La resa? Circa 900 chili per ettaro (più o meno quella dichiarata dai filmati di propaganda degli anni ’30 del XX secolo) che spalmati sull’intera superficie coltivabile arriveranno a un volume compreso tra le 3mila e le 5mila tonnellate annue all’inizio dell’Ottocento.
Vicecampioni del mondo
Alla fine dell’ottocento la produzione italiana, concentrata in Emilia Romagna, Campania e più marginalmente in Veneto e Piemonte, viaggia attorno a quota 70mila tonnellate (il 17% circa della produzione mondiale) che collocano l’Italia al secondo posto della graduatoria dietro alla Russia (210mila), ma davanti all’Ungheria (55mila) e alla Francia (28mila). A cavallo dei due secoli gli usi della canapa sono già variegati. Tanto che all’inizio del Novecento, ricordava qualche anno fa Assocanapa, «Era normale comprare in farmacia l’estratto proveniente da Calcutta e i sigaretti di canapa indiana per la cura dell’asma».
La coltura della canapa in provincia di Caserta, 1936Il peso della produzione italiana nel mercato mondiale si confermerà anche nei decenni successivi. Ma il vento della crisi inizia a spirare. «Nell’Italia rurale del Ventennio – riferiscono ancora gli storici – la manodopera è ancora abbondante. Il Regime ne ha represso le richieste salariali, i proprietari ritraggono ancora, da produzioni elevate, un modesto guadagno. Ma l’equilibrio della coltura è precario. Sarà sufficiente che il quadro economico nazionale inizi la conversione dell’antica economia rurale in economia manifatturiera per determinarne il tracollo definitivo e irreparabile».
E ancora: «Se nel 1928 il valore della produzione è stato equivalente a un miliardo di lire, solo tre anni più tardi quel valore è sceso a 470 milioni. Una coltura che impone anticipazioni tanto cospicue non può sopravvivere tra fluttuazioni tanto ingenti».
Cossiga, Craxi, Fini & Giovanardi
L’arrivo su mercato delle fibre sintetiche – nylon in primis – segna la fine della coltivazione di massa. Le nuove arrivate costano meno e la canapa non può reggere il confronto. Come se non bastasse ci si mette la guerra alla droga. Nel 1961 l’Italia aderisce alla “Convenzione Unica sulle Sostanze Stupefacenti”, un accordo internazionale che mette anche la cannabis nel mirino. Seguiranno nell’ordine la “Legge Cossiga” del 1975 sulle sostanze psicotrope e stupefacenti, e il Testo Unico del 1990.
Una norma (firmata dal ministro della Giustizia Giuliano Vassalli, PSI, e dalla collega per gli Affari Speciali, Rosa Russo Jervolino, DC) che diventa il simbolo del proibizionismo craxiano e che arriva a penalizzare anche l’uso personale, regola poi abolita da un referendum del 1993. La coltivazione della canapa italiana, nel frattempo, si è praticamente azzerata. Nel 2006 tocca alla legge Fini-Giovanardi, celebre per aver eliminato ogni distinzione legale tra droghe leggere e non. Sarà dichiarata anticostituzionale otto anni dopo.
Rinascita a rischio
«Le teorie demonizzanti e stigmatizzanti hanno preso il sopravvento e si è reso illegale ciò che prima, nel ventennio fascista e nel dopoguerra, era già tollerato e praticato», dichiarava l’allora senatore del PD Luigi Manconi alla rivista Wired nel gennaio 2014. Quasi tre anni più tardi entrava in vigore la nota legge 242 che ha ridato slancio alla coltivazione della canapa. Oggi, segnala un recente rapporto di Merian Research, il settore conta anche sulla presenza di piccole cooperative.
Il giro d’affari dei produttori italiani, stima Coldiretti, vale circa 40 milioni di euro e coinvolge coltivazioni per 4mila ettari (dieci volte il dato del 2013). Sullo sfondo però resta la grande ondata di incertezza normativa emersa dopo l’intervento della Cassazione che rischia di danneggiare profondamente la domanda. E, con essa, le prospettive dell’intera filiera.