Opl245, per un affare miliardario a Eni basta una lettera firmata “Pinco Pallino”
Le testimonianze di due alti dirigenti Eni al processo milanese mettono in luce una due diligence quantomeno sospetta sull’affare del maxigiacimento petrolifero in Nigeria
Un’udienza complicata per l’Eni, quella durata buona parte della giornata di mercoledì scorso. Chiamati a testimoniare dall’accusa c’erano due dipendenti della compagnia petrolifera che hanno avuto un ruolo di primo piano nell’affare OPL245, il mega giacimento offshore nigeriano per cui Eni, Shell e loro altissimi dirigenti sono a processo a Milano per corruzione internazionale.
Quella strana lettera della Malabu ad Eni
Enrico Calligaris fa parte dell’ufficio legale, mentre Donatella Ranco nel periodo relativo alla trattativa faceva parte dell’ufficio contratti, e più nello specifico era una delle persone incaricate di negoziare con la controparte nigeriana. Entrambi sono stati incalzati a più riprese dai due pubblici ministeri, rispettivamente da Sergio Spadaro e Fabio De Pasquale, forse mai così determinati nell’esame dei testi.
Emeka Obi e la sua Energy Venture Partner (EVP) sono stati un po’ il filo rosso che ha legato i due interrogatori, in particolare in merito all’inconsueto (per Eni) ruolo di mediatore che la società titolare della licenza, la “oscura” Malabu, aveva conferito allo stesso Obi. Se Calligaris a più riprese si è trincerato dietro al classico “non ricordo”, la Ranco ha spiegato come nel primo incontro con Obi il mandato della Malabu all’EVP sia stato in un primo momento “visionato” solo da due sue colleghe e che lo stesso conteneva vari omissis, ma anche la firma di Dan Etete nella pagina finale – Etete l’ex ministro del Petrolio di fatto prioprietario della Malabu.
Come “base” per un accordo di confidenzialità, ci si trovava di fronte a una procedura alquanto anomala, per ammissione della stessa Ranco, in parte poi “sanata” da una confort letter spedita a Eni dalla Malabu per confermare l’affidabilità di Obi e della EVP. Una lettera di rassicurazione siglata da tale Seydou Muna Muna, che nel rapporto commissionato da Eni alla società esterna The Risk Advisory Group veniva precedentemente definito un nome fittizio – in slang nigeriano equivale al nostro Pinco Pallino…
La dipendente ENI solleva dubbi ma cadono nel vuoto
Insomma, Muna Muna altri non era che uno dei tanti nomi di comodo usati da Etete, un elemento che anche nell’udienza non è sembrato colpire troppo la Ranco e che già nel 2010 non aveva suscitato particolare preoccupazione. Né ci si scapicollò, a giudicare dalle due testimonianze, per avere qualche informazione supplementare sulla condanna inflitta all’ex ministro Etete già nel 2007 da un tribunale parigino per riciclaggio di denaro.
Eppure c’è una email di Valentina Ferri, altra dipendente Eni, che chiedeva quanto meno di acquisire le carte per capirne di più.
Un’ennesima email evidenziava inoltre che nel 2010 c’era un’inchiesta in atto in Nigeria sulla possibile manomissione di documenti societari della Malabu. “Ricordo solo che c’era una questione legata a una possibile estromissione di un azionista”, ha affermato la Ranco.
Due diligence all’acqua di rose
Quello che emerge, non per la prima volta in realtà, è un processo di due diligence, di controllo, a dir poco approssimativo da parte della più grande multinazionale italiana – nonché maggiore produttore di petrolio in Africa. Se all’epoca non si era tenuti a farlo sugli intermediari, visto l’iter iniziale e la mancanza addirittura di un sito web, qualche approfondimento su EVP andava fatto. Per la vicenda OPL 245, Obi è stato condannato a quattro anni di reclusione a seguito del patteggiamento dello scorso settembre, mentre la trasmissione della Rai Report aveva scoperto addirittura nel 2015 che la sede londinese di EVP era “finta”.
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I sospetti dell’advisor esterno
Per quanto riguarda la due diligence sulla Malabu, sarebbe più corretto dire, alla luce delle parole dell’avvocato Calligaris, che l’accordo sul passaggio di mano della licenza fu raggiunto senza che questa fosse stata di fatto portata a pieno compimento.
I dubbi serpeggiavano ed erano stati messi nero su bianco, nel 2007 e nel 2010, dalla già citata The Risk Advisory Group, per la quale dietro Malabu c’era Etete. Rimanevano tante perplessità pure sull’EVP, estromessa dal deal nelle fasi finali, tanto che sempre Calligaris, non senza un certo imbarazzo, ha dovuto decodificare una sua email infarcita di sigle in cui segnalava ai suoi colleghi che forse il governo nigeriano avrebbe fatto meglio a stornare dei soldi dal cospicuo pagamento ricevuto per “possibili pretese di EVP”. Uno scrupolo non dovuto – “Eni ormai aveva pagato la cifra pattuita e ogni complicazione ricadeva su Abuja” – oppure un timore relativo a uno scenario più complesso?
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Non a caso Obi, subito dopo il raggiungimento dell’accordo per la licenza, si rivolse a un tribunale inglese per ottenere 215 milioni di dollari da Dan Etete, e così una parte del pagamento di Eni a Londra fu bloccato. Procedimento che destò le attenzioni della società civile organizzata e quindi della Procura di Milano. E da lì ha avuto inizio la nostra storia…