Se i padroni vogliono l’azionariato popolare

Ogni settimana il commento di Luca Pisapia sugli intrecci tra finanza e calcio

Dopo l’iniziativa di un gruppo di celebrità (o presunte tali) di fede nerazzurra, con la creazione di una società ad hoc con lo scopo di entrare nel capitale sociale dell’Inter attraverso una campagna di azionariato diffuso, ecco che all’improvviso questa pratica sembra essere diventata la panacea di tutti i mali del pallone.

Giornalisti, attori, politici e cantanti, oltre al presidente del Coni e a quello della Figc, sono intervenuti sul tema, profondendosi in sperticati elogi dell’azionariato popolare, e declamando di voler restituire il pallone ai suoi legittimi proprietari: i tifosi. Ma la storia insegna che quando il padrone dice che vuole farti un regalo, la fregatura è dietro l’angolo. Intendiamoci, il cosiddetto azionariato popolare in sé non è male, anche se ha molti difetti.

Altrove, addirittura, è quasi regola. In Germania fino al 1998 le società erano organizzazioni no profit, e ancora oggi, con poche eccezioni come Leverkusen, Wolfsburg e Lipsia in mano a Bayer, Volkswagen e Red Bull, vige la regola fissa del 50%+1 della proprietà in mano all’azionariato diffuso e il 49% a disposizione degli investitori privati.

In Spagna, nell’ambito dell’autonomia regionale, fu concesso a Barça e Real (oltre ad Athletic e Osasuna). E infatti i tifosi delle due big della Liga votano su tutto, dalle elezioni presidenziali alle piccole decisioni, anche se poi la responsabilità diretta della dirigenza, già prevista e certificata prima della riforma degli anni Novanta, lascia a quest’ultima potere decisionale esclusivo. Con tanti saluti al popolo.

Più in generale, però, è chiaro che l’azionariato popolare utilizzato come semplice struttura societaria non ha nulla di democratico in sé: Bayer e Barcellona hanno dietro Baviera e Catalogna, le due regioni più ricche di Europa, e saranno sempre più forti di Mainz e Villarreal. E infatti vincono sempre loro. È quindi proprio il concetto di fondo che lascia il tempo che trova.

Mentre tutt’altra cosa sono le iniziative nate dal basso per il calcio popolare, una strategia assai diversa che prevede la creazione di una vera e propria comunità orizzontale in cui tifosi, giocatori, dipendenti e azionisti siano tutt’uno, agendo sul territorio prima ancora che in campo, animati da sentimenti di condivisione e solidarietà. Vedi l’esempio del Centro Storico Lebowski e molti altri.

Nulla a che fare con l’idea di calcio delle celebrità nerazzurre o dei presidenti di Coni e Figc. Parlare di azionariato popolare significa infatti limitarsi a organizzare un crowfunding per chiedere ai tifosi di riempire le tasche dei proprietari in difficoltà. Perché è difficile immaginare che i padroni del vapore vogliano improvvisamente regalare le squadre ai tifosi: molto più semplicemente, vogliono solo fare in modo che questi partecipino alle voragini di debiti che loro stessi hanno provocato, secondo l’antico adagio del capitalismo italiano per cui si privatizzano i profitti e si socializzano le perdite.