Gli insospettabili campioni della parità di genere

Islanda, Nicaragua, Filippine, Ruanda. Nazioni “lontane” che contrastano con successo le discriminazioni di genere. L’economia ringrazia. La democrazia un po' meno

Matteo Cavallito
La studiosa e attivista americana Swanee Grace Hunt durante un incontro con Esperance Nyirasafari, Minister of Gender del Ruanda. La nazione africana, quarta, precede la Svezia nella classifica sulla parità di genere del World Economic Forum © Inclusive SecurityWikimedia Commons
Matteo Cavallito
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In testa c’è il solito Nord Europa ma nella classifica dei Paesi più virtuosi nel contrasto al gap di genere le sorprese non mancano. Basta guardare all’ultimo rapporto diffuso dal World Economic Forum per scoprire una Top 10 che è un autentico giro del mondo. Paesi ricchi ed economie emergenti o in via di sviluppo; democrazie solide e governi autoritari; un gruppo eterogeneo accomunato però da risultati eccellenti.

La riflessione è obbligatoria, per evitare di incorrere nell’equivoco. Ridurre le discriminazioni di genere non è la panacea di ogni male e la presenza in alta classifica di nazioni politicamente instabili (o stabili ma autoritarie) è lì a dimostrarlo. Ma ridurre il gap – è altrettanto evidente – significa anche creare nuove opportunità. Con riflessi positivi sotto molti aspetti. A partire dalla crescita economica.

I soliti sospetti: Islanda, Norvegia, Finlandia

Vince l’Islanda, per il nono anno consecutivo. Reykjavík, sostiene il WEF, ha chiuso ad oggi l’87% del divario di genere ed è il Paese più avanzato del Pianeta nel coinvolgimento delle donne nella sfera politica. Dal 2006, la data di inizio delle rilevazione, la riduzione del gap è stata pari a dieci punti percentuali, una delle migliori prestazioni registrate su scala globale.

Nella graduatoria generale seguono a breve distanza Norvegia (che ha cancellato l’83% del divario di genere) e Finlandia (82%). Helsinki, in particolare, ha conseguito la piena parità di genere sul fronte scolastico e accademico: I livelli medi di istruzione raggiunti da uomini e donne nel Paese sono sostanzialmente identici.

Il caso “da manuale”: il Ruanda

La parità, si diceva, non risolve. Ma per lo meno aiuta. Il Ruanda, quarto in classifica dopo aver superato quest’anno niente meno che la Svezia, è un caso da manuale. Il presidente Paul Kagame, al potere dal 2000, ha virtualmente azzerato ogni possibile opposizione politica (il 4 agosto 2017 è stato rileletto con il 98,8% dei voti) ma nel corso del suo mandato perpetuo ha puntato senza indugi su un ampio programma di contrasto al divario di genere. Il giudizio morale sulla sua figura difficilmente cambierà.

Ma gli effetti delle politiche a favore delle donne hanno riscosso il plauso del FMI. Nell’ultimo decennio, ha notato il Fondo, il Paese ha registrato una crescita economica annuale media del 7,7% superando di oltre 2 punti percentuali il dato aggregato dell’Africa Subsahariana. Almeno un quarto di questo surplus, sostiene ancora il FMI, sarebbe la diretta conseguenze dell’integrazione femminile nel sistema economico.

America Latina? Vince il Nicaragua

Al sesto posto, dietro alla scontatissima Svezia, c’è il Nicaragua. La nazione centroamericana è la quinta al mondo per presenza di donne in parlamento (sono quasi la metà, il 46%) ed è di gran lunga la più avanzata del Subcontinente. Ma non mancano le ombre: l’analfabetismo è tornato a crescere e nel campo delle opportunità offerte dal sistema scolastico e accademico le donne appaiono ancora svantaggiate. Si può ancora migliorare insomma.

Lavoro: Slovenia e Irlanda contro il gap di genere

Miglior performer dell’Europa orientale, la Slovenia. Ha cancellato l’80% del gap di genere progredendo a passo spedito (più 13 punti percentuali dal 2006, una delle migliori prestazioni registrate a livello globale). Lubiana vanta storicamente un divario relativamente basso nei livelli di stipendio: ad oggi, le lavoratrici slovene guadagnano in media il 7,8% in meno rispetto ai colleghi maschi, uno spread decisamente inferiore alla media UE (16,2%) nonché ai differenziali rilevati nei Paesi del Nord Europa come Norvegia (14,9%), Islanda (16,3) e Finlandia (17,4%).

Il tema del divario negli stipendi è tuttora parte del dibattito politico in Irlanda, l’ottava classificata nella graduatoria generale dell’Indice. Il pay gap rilevato a Dublino e dintorni sfiora il 14% ed è in crescita dall’inizio del decennio.

Entro la fine dell’anno, tuttavia, il Paese potrebbe adottare una norma per favorire l’uguaglianza retributiva che, tra le altre cose, obbligherebbe le aziende a comunicare i dati sui livelli salariali medi divisi per genere. Nel vicino Regno Unito, dove una legge simile è da poco in vigore, la pubblicazione delle cifre ha svelato che il 78% delle aziende britanniche offre alle donne salari orari mediamente più bassi di quelli garantiti agli uomini.

Filippine: un modello per l’Asia

Alle spalle della Nuova Zelanda, uno dei Paesi più avanzati del mondo sulla strada (ancora lunga) delle pari opportunità sul lavoro, le Filippine chiudono la Top 10 dell’indice generale. In un’analisi pubblicata nel 2015, Michael Daniels, docente della University of British Columbia di Vancouver (Canada) ha sottolineato la significativa presenza delle donne filippine nelle cariche manageriali. Daniels ha evidenziato inoltre il ruolo positivo della tradizione culturale matriarcale e ha definito il Paese un modello per l’Asia.

Nell’ultimo anno, rileva tuttavia il WEF, il divario salariale tra uomini e donne registrato nelle Filippine è aumentato. Le donne più povere, ha rilevato inoltre un recente rapporto del McKinsey Global Institute, sono ancora svantaggiate perché tendono ad abbandonare più facilmente il lavoro dopo il matrimonio.

Il miglioramento dei servizi sociali, il superamento del gap esistente tra i congedi di paternità e maternità (fissati oggi a 60 giorni per le donne a 7 per gli uomini) e l’offerta di impieghi più flessibili per le neomamme, sostiene il rapporto, garantirebbero per contro una crescita della forza lavoro femminile. Il raggiungimento di questi obiettivi, stima McKinsey, si tradurrebbe per il paese asiatico in una crescita supplementare del Pil pari a 40 miliardi di dollari da qui al 2025.