I piani per il “Net zero”? Li fanno tutti ma sono spesso vaghi e incompleti
I piani di decarbonizzazione aumentano ma sono vaghi e incompleti. Le aziende italiane hanno i dati peggiori fra i Paesi del G7
Non c’è praticamente grande azienda al mondo che non abbia adottato un piano di decarbonizzazione. Ma la maggior parte manca di chiarezza, uniformità e precisione . È ciò che si evince dal report pubblicato da “Net Zero Tracker”. Una ricerca che analizzati i piani per il “Net zero” (l’azzeramento delle emissioni nette di CO2) di 128 Paesi e di 702 aziende quotate in Borsa, presenti nella 2000 Forbes list.
Negli ultimi tre anni un boom di piani di decarbonizzazione
Negli ultimi anni si è parlato infatti in maniera crescente di Net Zero e decarbonizzazione. Ovvero di uno degli strumenti che dovrebbero aiutarci a limitare a 1,5 gradi centigradi la crescita della temperatura media globale. E combattere così i cambiamenti climatici. Il report di Climate Watch Net Zero Tracker, piattaforma online che raccoglie i dati sulle emissioni di gas serra, evidenzia infatti come la diffusione di impegni climatici abbia registrato una crescita vertiginosa negli ultimi tre anni.
Fino al 2019 gli obiettivi nazionali coprivano solo il 16% del Prodotto interno lordo (PIL) globale. Il quantitativo è cresciuto di quasi 6 volte, arrivando a comprendere il 91% dell’economia globale.
Ma cosa significa tutto questo? Per gli ottimisti si tratta di una risposta adeguata alle richieste della scienza. Per gli scettici, invece, i numeri in crescita mostrano vertici aziendali e governi in piena modalità greenwashing.
I carbon credit: una scappatoia troppo a portata di mano
L’analisi dei dati di divulgazione presi in esame dal report evidenzia come vi sia una spesso mancanza di chiarezza su elementi essenziali. Interrogativi come, ad esempio, quali gas ad effetto serra siano stati inclusi nel piano o quali ambiti di emissione siano coperti. Ma soprattutto in che misura si vogliano utilizzare i cosiddetti offset – ossia i carbon credit (le quote di emissione, ribattezzate anche come diritti ad inquinare) o le controverse tecnologie “CDR” (che puntano alla rimozione della CO2 dall’atmosfera) – per raggiungere i propri impegni.
In particolare i carbon credit rischiano di rappresentare una scappatoia troppo a portata di mano. I sistemi di scambio di quote di emissione di gas ad effetto serra – come quello introdotto dall’Unione europea nel 2005 e noto come sistema ETS – sono stati concepiti con l’obiettivo di indurre le grandi imprese ad inquinare di meno. L’idea è piuttosto semplice: fissare un tetto massimo alle emissioni di alcuni agenti inquinanti. In particolare biossido di carbonio (CO2), ossido di azoto (N2O) e perfluorocarburi (PFC).
Così, chi inquina di meno e non usa le proprie quote di emissione, può rivenderle sul mercato. Chi inquina di più può invece comprarle. Un sistema che in passato è stato oggetto tuttavia di numerose critiche, anche in Europa. E che secondo Net Zero Tracker può risultare «altamente problematico» per le aziende che hanno piani di decarbonizzazione e vi ricorrono. Poiché i carbon credit, assieme agli altri offset, presentano dubbi in termini, ad esempio, di quantificazione degli impatti e di rischio di double counting (ovvero di doppia rendicontazione da parte di due aziende degli stessi abbattimenti di emissioni).
Un secondo elemento da sottolineare è se vi sia o meno la presenza di metodologie standard nel definire il modo in cui si intende raggiungere la neutralità climatica. Questo dovrebbe comprendere target intermedi, forme di rendicontazione e pubblicazione di rapporti. Pratiche necessarie affinché impegni di grossa entità non risultino vacui.
Se non vi è chiarezza negli obiettivi e nel modo in cui si ha intenzione di raggiungerli il rischio è che restino irrealizzati. Che si tratti di promesse spesso solo di natura simbolica. Nella peggiore delle ipotesi, appunto, di puro greenwashing.
Legislazione sull’impronta climatica
I governi nazionali che hanno un piano di azzeramento delle emissioni nette sono passati dal 10% nel dicembre 2020 a ben il 65% dello scorso giugno. La maggior parte però non chiarisce se il piano copra sia la CO2 che altri gas climalteranti, come il metano. Né se sia previsto l’uso di crediti di compensazione. Di fatto, meno di un quinto dei governi nazionali e degli enti locali soddisfa quelle che Net Zero Tracker considera le condizioni minime per portare a compimento gli obiettivi climatici prefissati.
Il quadro generale appare ancora più cupo se si considerano ulteriori parametri. Ad esempio la copertura di tutte le emissioni. O il prediligere pratiche volte alla riduzione propria delle emissioni piuttosto che all’utilizzo dei carbon credits.
Nel complesso, meno del 5% di tutti i governi nazionali e gli enti locali attualmente soddisfa sia i criteri procedurali che quelli riguardanti i carbon credits e la totale copertura delle emissioni.
Corporate italiano: il peggiore fra i paesi altamente industrializzati
La situazione non migliora passando alle imprese. Ad oggi un terzo delle aziende della 2000 Forbes list ha assunto impegni climatici (mentre alla fine del 2020 erano presenti solo nel 20%).
Fra queste le più virtuose sono le britanniche, nelle quali tale dato viene riscontrato ben nel 72% dei casi. Ma lasciano ben sperare quasi tutti i Paesi appartenenti al G7. La media europea vede quasi il 60% delle grandi aziende possedere un piano climatico volto alla decarbonizzazione. In Italia invece neppure la metà delle imprese (il 27%) risulta essersi posta degli impegni climatici.
Dato allarmante se si considera che la percentuale che raggiunge gli standard minimi procedurali è ancora più bassa. La mancanza di responsabilizzazione è una dinamica comune a molti contesti aziendali anche al di fuori del territorio nazionale.
Infatti, se da una parte aziende la cui impronta ambientale è particolarmente elevata tendono a fissare dei target di decarbonizzazione (nell’industria dei combustibili fossili si arriva al 49%), il ricorso ai carbon credit è una pratica ancor più comune che per gli enti pubblici. Solo il 3% delle più gradi aziende mondiali soddisfa infatti gli standard minimi del report sia a livello procedurale che per ciò che riguarda gli obiettivi stessi.