Il piano verde di Eni? Un buon esercizio ma niente di più
Nell'assemblea degli azionisti (a porte chiuse) centinaia le domande sul progetto di decarbonizzazione. Ambizioso ma al momento circondato da troppe incognite
L’assemblea degli azionisti di Eni di oggi sarà ricordata per il fatto che, stavolta, la scena è stata vuota. Popolata solo dagli amministratori, a distanza di sicurezza o in collegamento da casa e dal rappresentante designato, lo studio Trevisan di Milano, che ha espresso i voti e riportato alcune domande per conto degli azionisti. Niente preambolo mellifluo della presidente Emma Marcegaglia. Nessun azionista critico al microfono e, quindi, nessuna escandescenza da parte dell’amministratore delegato Claudio Descalzi. Un evento asettico, di cui si avrà notizia solo dal verbale vergato in prosa protocollare dal notaio e pubblicato a qualche settimana dall’evento, quando anche le poche emozioni della giornata si saranno ormai abbondantemente spente negli animi e nei ricordi dei partecipanti.
Ai piccoli azionisti è stato riservato solo un piccolo assaggio. Una cura palliativa per la loro insaziabile sete di verità e, non di rado, vendetta: l’invio delle domande pre-assembleari scritte, come gli altri anni, con la possibilità di leggere le risposte della società qualche giorno prima dell’assemblea, per poter esprimere al meglio il proprio voto anticipato per corrispondenza. Le domande, come era prevedibile, sono fioccate a decine.
Oltre 150 sono arrivate da Fondazione Finanza Etica, Re:Common, Greenpeace, Legambiente, A Sud e CDCA. Quasi tutte su un solo tema: il piano di decarbonizzazione di Eni al 2050, presentato agli analisti finanziari il 28 febbraio scorso e criticato, punto per punto, in un rapporto pubblicato poche ore prima dell’assemblea in una “contro assemblea” in streaming, ospitata da Greenpeace.
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Un piano ambizioso. Ma ancora molto vago
Il piano, bisogna riconoscerlo, è molto ambizioso: emissioni di gas ad effetto serraGas che compongono l’atmosfera terrestre. Trasparenti alla radiazione solare, trattengono la radiazione infrarossa emessa dalla superficie terrestre, dall'atmosfera, dalle nuvole.ApprofondisciScope 1, 2 e 3 tagliate dell’80% entro il 2050 e progressivo abbandono del petrolio, a favore di gas e rinnovabili, a partire dal 2026.
L’inclusione delle emissioni Scope 3, quelle indirette, prodotte da petrolio e gas quando sono usati, per esempio, nei motori delle automobili, è una novità molto rilevante rispetto al 2019. Appena un anno fa infatti Descalzi, in assemblea, aveva detto chiaramente che «Eni non ha al momento alcun obiettivo sullo Scope 3. Prima dovranno essere completati tutti i passaggi dello Scope 1». Lo Scope 1 si riferisce esclusivamente alle emissioni dirette provenienti dagli asset propri dell’impresa, quindi generate nella fase di estrazione e produzione di idrocarburi, mentre lo Scope 2 è relativo alla generazione di energia elettrica, vapore e calore acquistati da terzi.
In meno di un anno Eni sembra aver cambiato radicalmente approccio. Il problema, però, è il modo in cui si pensa di raggiungere gli obiettivi prefissati.
Come cambierà il portafoglio Eni?
Nel 2018 Eni ha prodotto 537 Mt (milioni di tonnellate) di emissioni GHG (gas serra). In base al piano strategico, dovrebbero scendere a 107 Mt al 2050. Una piccola parte (7,45% o 40 Mt) di questo calo sarà assicurata da compensazioni tramite “sink biosferici”: acquisto di crediti di carbonio legati a progetti di conservazione forestale e cattura e sequestro del carbonio (CCS). Tutto il resto, come precisa Eni in una delle risposte agli azionisti, deriverà «dalla profonda trasformazione del portafoglio di business di Eni». A partire dal 2026, il Cane a 6 zampe estrarrà meno idrocarburi e sostituirà il petrolio con il gas, con minori impatti stimati sull’ambiente, convertirà le sue raffinerie europee in “bio-raffinerie”, produrrà sempre più energia da fonti rinnovabili (55 GW al 2050) ed espanderà le sue attività retail (vendita di energia), «con l’obiettivo di distribuire solo prodotti “bio” e rinnovabili al 2050».
Sul modo in cui le singole strategie contribuiranno alla trasformazione del suo portafoglio, Eni non si esprime. «La velocità di questa evoluzione e il contributo relativo dei diversi business dipenderanno dall’andamento del mercato, dallo scenario tecnologico e dalla normativa di riferimento, conferendo flessibilità all’implementazione della strategia», si spiega nelle risposte date agli azionisti.
Decarbonizzazione: serve una forte volontà politica
Un piano al 2050 ha necessariamente molte incognite e la posizione di Eni è comprensibile. Nonostante questo, come richiesto dagli azionisti critici, la società avrebbe potuto fare alcune previsioni sulla base di scenari economici, legislativi e tecnologici alternativi. Servirà quindi una forte volontà politica da parte della direzione dell’impresa e del suo azionista pubblico (il governo italiano, con il 30,1%, ndr) per tenere la barra dritta sulla transizione verde nei prossimi decenni.
Al momento, però, sembra che manchino entrambi i presupposti: il governo non si è espresso sul piano strategico di Eni. Non è una novità: negli ultimi quindici anni si è sempre guardato bene dal fornire un qualsiasi tipo di indirizzo alla società. Mentre la direzione della compagnia energetica italiana è ancora geneticamente ancorata alla trivellazione di pozzi e giacimenti. Non a caso, nei primi sei anni del piano, aumenterà l’estrazione di idrocarburi del 3,5% medio all’anno, invece che diminuirla da subito.
Una prima, parziale bocciatura al piano green
Intanto il piano di Eni ottiene una prima, parziale bocciatura. A emetterla è TPI (Transition Pathway Initiative), un’iniziativa globale guidata da investitori istituzionali che, periodicamente, «valuta la preparazione delle imprese in vista della transizione a un’economia a basso contenuto di carbonio».
Nel rapporto “Carbon Performance of European Integrated Oil and Gas Companies”, pubblicato il 12 maggio, si sottolinea che, al momento, Eni e Shell hanno «i piani più ambiziosi per la riduzione delle emissioni».
Eni, si legge, «è la sola impresa del settore petrolifero europeo and essersi posta un obiettivo di taglio delle emissioni (incluso lo Scope 3) in termini assoluti, dell’80%, entro il 2050. Il piano per ridurre l’intensità carbonica (rapporto tra emissioni totali e contenuto energetico dei prodotti venduti, ndr) del 55% è particolarmente ambizioso, considerando che Eni parte già ora da un’intensità carbonica inferiore del 10% rispetto a quella dei concorrenti».
Nonostante gli impegni, nessuna big del petrolio centra l’obiettivo degli 1,5 gradi
Nonostante gli impegni presi, però, nessuna delle compagnie analizzate da TPI, incluse Eni e Shell, sarebbe allineata all’obiettivo che prevede un limitazione della crescita della temperatura media globale ad un massimo di 1,5 gradi centigradi, entro la fine del secolo, rispetto ai livelli pre-industriali. Al contrario, alcuni dei principali colossi mondiali delle fonti fossili (tra cui la stessa Eni) potrebbero centrare – nel caso rispettassero i piani annunciati – il principale obiettivo dell’Accordo di ParigiL’Accordo di Parigi è un documento d’intesa tra le nazioni facenti parte dell’UNFCCC che è stato raggiunto nel 2015 al termine della Cop21.Approfondisci. Ovvero il contenimento del riscaldamento globale entro i 2 gradi (il documento raggiunto al termine della Cop21, nel 2015, suggerisce in ogni caso di rimanere «il più possibile vicini agli 1,5 gradi»).
TPI ha calcolato che una compagnia petrolifera media dovrebbe tagliare l’intensità carbonica delle proprie emissioni di oltre il 70%, dal 2018 al 2050, per allinearsi allo scenario dei 2 gradi. Mentre per raggiungere il più ambizioso traguardo degli 1,5 gradi, occorrerebbe un calo del 100%.
«Anche gli obiettivi più ambiziosi (dei big del petrolio) sono ben al di sotto di queste soglie».
A dirlo non sono le solite ONG mai contente, ma un gruppo che riunisce alcuni tra i maggiori investitori istituzionali al mondo, inclusi il fondo sovrano norvegese, i fondi pensione USS (Gran Bretagna), NZ SuperFund (Nuova Zelanda), AP (Svezia), Hesta (Australia) e la Chiesa d’Inghilterra. Per il piano di Eni la strada parte dunque tutta in salita.