Cosa succede alla musica quando a dominare sono le piattaforme di streaming

Dallo streaming ai playlist algoritmiche: come Spotify e le grandi piattaforme stanno cambiando la musica, il suo valore e chi la produce

L'immagine è stata realizzata dalla redazione di Valori.it utilizzando Midjourney

La finanza si è presa anche la musica. Cataloghi, diritti e streaming sono diventati asset da cui ricavare profitti, e pochi grandi colossi dominano ormai il mercato. Con il risultato di una produzione musicale sempre più standardizzata, che lascia poco spazio alla sperimentazione e alle esperienze indipendenti.

Ma se la musica diventa solo un investimento, che ne è del suo valore culturale e collettivo? È la domanda da cui parte questo dossier, che analizza dati, voci e prospettive di chi la musica continua a farla, studiarla e viverla.

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Negli ultimi anni l’industria musicale ha subito una profonda trasformazione, passando da un modello basato sulla vendita di dischi a uno incentrato sullo streaming. Piattaforme come Spotify, Apple Music e Amazon Music hanno ridefinito le dinamiche di consumo della musica, introducendo un sistema che privilegia l’accesso illimitato a un vasto catalogo di brani tramite abbonamenti mensili o pubblicità. Questo modello ha generato flussi di entrate costanti e prevedibili, attraendo l’interesse di investitori e fondi di private equity. 

Nel mondo, lo streaming rappresenta il 69% dei ricavi del commercio di musica registrata, un dato in crescita rispetto al 67,3% dello scorso anno. Negli Stati Uniti questa fetta è ancora più grande: arriva all’84%. Al momento Spotify è la piattaforma di streaming musicale più popolare, scelta dal 35% degli utenti statunitensi, seguita da YouTube Music, Pandora, Apple Music e Amazon.

Come funziona Spotify, la piattaforma di streaming più usata al mondo

Spotify conta su 276 milioni di abbonati a pagamento, un dato in crescita. Nel 2024 ha distribuito oltre 10 miliardi di dollari in royalties, con un aumento di dieci volte rispetto a dieci anni prima. Ma come remunera artisti e titolari dei diritti?

Spotify paga due principali tipologie di royalties per l’ascolto di musica sulla piattaforma: le recording royalties e le publishing royalties. Le prime riguardano i diritti sulle registrazioni audio (master) riprodotte su Spotify. Questi pagamenti vengono erogati ai licenzianti che hanno fornito la musica – in genere le etichette discografiche o i distributori – i quali, a loro volta, corrispondono le somme dovute agli artisti secondo i rispettivi contratti. Le publishing royalties spettano invece agli autori e ai proprietari delle composizioni (i brani in quanto opere musicali). Vengono quindi versate agli editori, alle società di raccolta e alle agenzie meccaniche, in base al territorio in cui avviene l’ascolto. Ogni volta che un brano viene riprodotto su Spotify i titolari ricevono i relativi diritti d’autore, indipendentemente dal fatto che ad ascoltarlo sia un utente Premium o del servizio gratuito con pubblicità.

Perché il modello di remunerazione di Spotify non convince

Spotify, come gli altri principali servizi di streaming, non paga un importo fisso per singola riproduzione. L’idea di una “tariffa per stream”, quindi, è un fraintendimento diffuso. Al contrario, il modello di remunerazione parte dai ricavi complessivi (dovuti ad abbonamenti e pubblicità) e ne distribuisce una quota tra tutti i titolari dei diritti, in proporzione al numero di stream generati. In pratica, la quota spettante a ciascun titolare è determinata dalla percentuale di ascolti che ha totalizzato sul totale mensile della piattaforma.

Questo modello ha sollevato preoccupazioni tra gli artisti. Chi lo critica, infatti, sostiene che Spotify premi soprattutto gli artisti più “grandi”, che generano più ascolti, a scapito dei più piccoli. Al netto di questo, poi, molti musicisti ritengono che le entrate derivanti dallo streaming siano insufficienti, con una media di circa 0,0035 dollari per stream. Questo nonostante l’azienda abbia pagato circa 9 miliardi di dollari in royalties nel 2023 e 10 miliardi nel 2024, come spiega l’ufficio stampa di Spotify a Valori. La piattaforma dichiara di aver versato circa due terzi delle proprie entrate, «più di qualsiasi altro servizio di streaming o retailer musicale nello stesso anno».

Eppure, un articolo di Damon Krukowski per il Guardian evidenzia come le piattaforme di streaming corrispondano appena 1,73 dollari ogni mille ascolti. Di questa somma, solo una quota – tra il 15% e il 50% – arriva effettivamente agli autori, dopo la ripartizione con le etichette discografiche. Inoltre, come spiega la testata Altreconomia, l’86% delle canzoni presenti sulla piattaforma non raggiunge i mille ascolti all’anno: si tratta della soglia minima stabilita dall’azienda nel 2023 per ricevere un qualsiasi compenso. 

Spotify tra industria militare e boicottaggio degli artisti

In più, Spotify si è trovata al centro di controversie etiche. Nel 2025 il Ceo Daniel Ek ha investito 600 milioni di euro in Helsing, una startup tedesca specializzata in intelligenza artificiale per applicazioni militari. Indignati, a metà settembre diversi artisti hanno lanciato la campagna “No music for genocide”, invitando a rimuovere i propri brani dalla piattaforma in Israele per discostarsi dal genocidio in corso nella Striscia di Gaza.

Tra i nomi più importanti spiccano Massive Attack, Deerhoof e King Gizzard & the Lizard Wizard che hanno optato per una mossa ancora più radicale, togliendo la propria musica da Spotify in tutto il mondo. Negli ultimi mesi, poi, è nata la campagna “Death to Spotify”. Si articola in una serie di conferenze, organizzate dal basso in California, con le quali artisti e attivisti si confrontano sulle strategie per distaccarsi dalla piattaforma.

Il monopolio dell’ascolto passivo imposto dagli algoritmi delle piattaforme

«Spotify ha praticamente monopolizzato l’esperienza d’ascolto, costruendo un meccanismo perfetto per capitalizzare il grande non detto del consumo musicale: ovvero l’ascolto inconsapevole», spiega lo scrittore e critico musicale Hamilton Santià. Citando il libro di Tiziano Bonini e Paolo Magaudda, “Musica nel digitale”, per cui solo il 2% degli ascolti musicali globali è consapevole. «Spotify ha in qualche modo sostituito la musica dei centri commerciali, creando playlist pensate per accompagnare attività come lo yoga o l’allenamento in palestra. Un ascolto che serve a fare altro e non spinge verso la musica in sé».

L’ascolto passivo non implica una scelta attiva: il prodotto arriva già confezionato, con playlist omogenee generate da algoritmi che analizzano gli ascolti dell’utente e si adattano ai suoi umori. Ripetendo sempre gli stessi brani, queste playlist contribuiscono a uniformare i gusti. Nel libro “Mood Machine. The Rise of Spotify and the Costs of the Perfect Playlist”, Liz Pelly evidenzia come le canzoni che non rientrano nelle playlist – perché non possiedono le “caratteristiche” gradite agli algoritmi – abbiano scarse possibilità di essere scoperte tramite ascolti spontanei.

È anche “colpa” delle piattaforme di streaming se la musica pop suona tutta uguale

«Questo influenza la produzione musicale: le canzoni pop sono standardizzate, progettate per entrare perfettamente nelle playlist e rispettare schemi precisi, senza rischiare nulla», continua Hamilton Santià. «È sempre successo che il formato influenzasse la produzione – pensa alla durata dei singoli all’epoca del 45 giri – ma, dentro queste cornici, le convenzioni venivano sfidate anche nel mainstream. Pensa ai Beatles, ai Pink Floyd o agli album campioni d’incasso di gente come Michael Jackson, Madonna o Prince». Anche una ricerca della Cambridge University Press conferma che negli ultimi vent’anni le canzoni più popolari hanno seguito una tendenza verso la standardizzazione e la ripetitività.

Questo fenomeno ha anche un impatto economico. L’ascolto occasionale prima generava flussi di cassa attraverso la vendita di dischi e compilation; ora quella parte del mercato discografico è scomparsa. Così lo standard è l’unica sicurezza per generare profitti sicuri, la sperimentazione è un rischio che nessuno vuole più correre. «Ci sono ascoltatori che usano Spotify come archivio o per cercare musica nuova, ma sono una minoranza», prosegue Santià.

«La prova empirica è nei numeri: un album storico caricato su Spotify vede un progressivo calo degli streaming dai primi brani a quelli finali (a meno che non ci sia un singolo di successo da qualche parte nella scaletta). Questa dinamica rende impossibile pensare in termini di “disco”, a scrivere “concept album” e prendersi libertà come intermezzi o opener strumentali: oggi i Pink Floyd non potrebbero aprire un disco come “Dark Side of the Moon” con “Speak to Me”, ad esempio. Ecco come lo streaming trasforma anche il modo di fare musica. Sulla lunga distanza credo che questo azzererà il rischio di sperimentare e inventare linguaggi nuovi».

La musica standardizzata diventa preda dei fondi

Dal punto di vista economico, questo modello rende la musica una preda appetibile per grandi fondi e investitori. Standardizzare il prodotto musicale lo rende predicabile e commerciabile, attirando capitali che prima non avrebbero investito nel settore. «Qui emerge un paradosso: mentre la pirateria aveva almeno una componente di ascolto attivo e consapevole, Spotify rappresenta il sistema stesso», aggiunge Santià.

«La pirateria, nonostante abbia distrutto parte del mercato discografico, era mossa da persone che avevano un gigantesco amore per la musica e avevano voglia di far conoscere i propri ascolti al più alto numero di persone possibili. Il gesto di prendere un disco, esportare le tracce e caricarle in rete era sì un danno consapevolmente all’industria discografica, ma lo si faceva per condividere qualcosa con qualcuno. Era lo spirito dell’Internet delle origini», spiega. «Quell’ascolto attivo permetteva anche di far conoscere band meno note, favorendo la musica indipendente e la nascita dei festival. Lo streaming ha invece spostato il potere dalle case discografiche alle piattaforme, creando un nuovo tipo di mercato con le stesse dinamiche».

Prima dei dischi, anche duplicare le cassette era considerato un problema: ogni copia significava un supporto venduto in meno. Con la scomparsa dei supporti fisici, il fenomeno della condivisione su larga scala ha creato evidenti difficoltà per il mercato discografico. «Tuttavia, laddove un mercato tradizionale sembrava morire, ne stava emergendo uno nuovo legato all’autoproduzione, alla musica indipendente e ai festival di nicchia», riprende Santià. «Questo aspetto aveva un risvolto positivo: permetteva a persone senza accesso ai canali tradizionali, sia per motivi economici sia per limiti di visibilità, di conoscere e vedere dal vivo artisti che altrimenti sarebbero rimasti irraggiungibili».

Le piattaforme di streaming appiattiscono la musica e alimentano il gigantismo degli eventi

Invece, negli ultimi anni si sono affermati festival sempre più grandi e costosi, con una contrazione della “classe media” musicale. «I piccoli festival, che garantivano biodiversità musicale e platee accessibili, sono diminuiti. Sono sopravvissuti solo quelli di nicchia o quelli sostenuti da grandi colossi che comportano altri problemi. Inoltre, questi eventi hanno impatti sociali e urbanistici notevoli, come l’aumento dei prezzi e l’extratourism nelle città ospitanti. Pensate al caso di Barcellona con il Questo fenomeno ha anche un impatto economico. L’ascolto occasionale prima generava flussi di cassa attraverso la vendita di dischi e compilation; ora quella parte del mercato discografico è scomparsa. Così lo standard è l’unica sicurezza per generare profitti sicuri, la sperimentazione è un rischio che nessuno vuole più correre. «Ci sono ascoltatori che usano Spotify come archivio o per cercare musica nuova, ma sono una minoranza», prosegue Santià.

«La prova empirica è nei numeri: un album storico caricato su Spotify vede un progressivo calo degli streaming dai primi brani a quelli finali (a meno che non ci sia un singolo di successo da qualche parte nella scaletta). Questa dinamica rende impossibile pensare in termini di “disco”, a scrivere “concept album” e prendersi libertà come intermezzi o opener strumentali: oggi i Pink Floyd non potrebbero aprire un disco come “Dark Side of the Moon” con “Speak to Me”, ad esempio. Ecco come lo streaming trasforma anche il modo di fare musica. Sulla lunga distanza credo che questo azzererà il rischio di sperimentare e inventare linguaggi nuovi»., festival che pure amo e frequento assiduamente da vent’anni», racconta.

Servono alternative all’oligopolio delle piattaforme di streaming

Oggi il settore live è uno spettacolo continuo. È il fenomeno dell’“eventismo”: numeri enormi per pochi artisti e biglietti più cari per il pubblico. Conferma Santià: «La musica è diventata un bene di consumo ad alto prezzo, accessibile solo a chi può permetterselo. I piccoli club e le situazioni spontanee stanno lentamente scomparendo». Come si può intervenire? «Non esiste un’unica risposta. Ma occorre prendere consapevolezza del sistema e cercare alternative con più azioni secondo volontà e possibilità».

«Chi boicotta Spotify fa bene, ma chi continua a usarlo lo capisco, l’importante è che ci sia consapevolezza. Servono percorsi paralleli: Bandcamp? Autoproduzione? Eventi locali? Finora abbiamo semplicemente spostato il Moloch: nella musica il potere è passato dalle case discografiche alle piattaforme di streaming», conclude Santià. «È un nuovo tipo di mercato, ma la dinamica di fondo rimane la stessa: the winner takes it all. Invece bisogna ridare alla musica una dimensione di comunità, lontana dalla totalità finanziarizzata, e assicurarsi che gli artisti possano distribuire e sostenere le proprie opere senza essere schiacciati dai grandi numeri».

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