Plastica in mare, un danno da 2500 miliardi l’anno

Il calcolo, pubblicato sul Marine Pollution Bulletin, peraltro è al ribasso: non comprende i danni sociali e sanitari. Nota positiva: dal 2020 l'import di rifiuti va autorizzato

L’inquinamento da plastica negli oceani – considerando solo l’ambito del cosiddetto marine litter – è responsabile di una mancata erogazione dei servizi ecosistemici che si traduce in una perdita annuale di benefici per l’umanità inclusa tra 500 e 2500 miliardi di dollari.Il calcolo è stato elaborato da un gruppo di scienziati, e pubblicato in uno studio (Global ecological, social and economic impacts of marine plastic) sul «Marine Pollution Bulletin».

INFOGRAFICA produzione globale ed europea di plastica nel 2017 – fonte Plastics Europe

 

Ogni tonnellata di plastica in mare ci costa 33mila dollari

I ricercatori hanno stimato che tra 4,8 e 12,7 milioni di
tonnellate di plastica sono entrate negli oceani del mondo provenienti da fonti terrestri nel solo 2010. Tale flusso di rifiuti dovrebbe poi aumentare di circa 10 volte entro questo decennio: oggetti e detriti in parte destinati a frammentarsi in piccoli e piccolissimi pezzi, diventando perciò microplastiche (con diametro compreso tra 0,1 e 05 mm), capaci di persistere nell’ambiente per decenni senza grandi modificazioni. Una massa che si addensa in isole grandi come nazioni sulle superficie dell’acqua (come il Pacific Trash Vortex), ma che nei fondali costituisce estensioni simili a dei continenti.

Così, partendo anche da altre ricerche relative ai danni subiti dagli ecosistemi terrestri, gli scienziati hanno ritenuto di «ipotizzare una riduzione tra l’1 e il 5% nella fornitura dei servizi degli ecosistemi marini a seguito dello stock di plastica dispersa negli oceani nel 2011».

«Su scala globale, si stima che, per il 2011, i servizi ecosistemici marini abbiano fornito benefici per la società che si avvicinano a 49,7 trilioni di dollari di valore per un anno. Questo calo tra l’1 e il 5% dell’erogazione dei servizi dell’ecosistema marino equivale a una perdita annuale di 500-2500 miliardi di dollari di valore dei benefici».

Perciò, se nel 2011 si stima che sia finito uno stock compreso tra le 75 e le 150 milioni di tonnellate plastica nell’ambiente marino, gli scienziati hanno stimato che per ogni tonnellata di plastica in mare l’umanità sconti un costo annuo – in termini di riduzione del capitale naturale marino – tra i 3300 e i 33mila dollari.

INFOGRAFICA distribuzione per regione della produzione globale di plastica nel 2017 – fonte Plastics Europe

Un calcolo al ribasso (perché non considera i costi sociali e sanitari)

Il peso economico è notevole ma è un calcolo al ribasso: esso comprende infatti gli impatti del marine litter prodotto dalla plastica solo sul capitale naturale. Tant’è che i ricercatori invitano ad approfondire l’argomento considerando i costi sociali ed economici. Ovvero l’effetto che nella pratica può produrre una eventuale riduzione di pesce disponibile, il declino della qualità delle acque e degli habitat che si ripercuote sul turismo, nei maggiori costi delle attività di pesca, oltre alle gravi conseguenze sanitarie.

Tali effetti non sono uniformi geograficamente: gli impatti economici variano a seconda del luogo di emissione dei rifiuti plastici, del loro percorso in mare e dell’area di accumulo, del tipo e della quantità già presente.

GRAFICO 20 maggiori Paesi per contributo di plastica malgestita e abbandonata nei mari – fonte Ocean Crusaders

La rivolta degli Stati comincia da Ginevra

Mentre gli studiosi fanno i conti, i decisori politici si riuniscono. Come è accaduto proprio agli inizi di maggio scorso in Svizzera. Ad incontrarsi nella capitale elvetica, gli Stati firmatari della Convenzione di Basilea, ovvero il principale trattato globale che regola il trasporto transnazionale di rifiuti pericolosi. Obbiettivo dichiarato: un accordo per affrontare l’emergenza, rafforzando il controllo del commercio mondiale dei rifiuti di plastica.

TABELLA export di rifiuti in plastica 2016-2018 dai 21 Paesi principali – fonte rapporto ‘Le rotte globali, e italiane, dei rifiuti in plastica’ di Greenpeace

I delegati sono giunti al meeting con le valigette 24ore cariche di documenti e dati statistici, a cominciare da quelli esposti in un documento elaborato dal programma ambientale europeo UNEP (United Nations Environment Programme) del maggio 2018. La crescita della produzione di plastica, cioè di manufatti sostanzialmente e per la grandissima maggioranza non biodegradabili, risulta esponenziale.

Produzione di plastica 1950-2050: una crescita esponenziale – FONTE: UNEP, maggio 2018

Delle circa 8.300 milioni di tonnellate di materie plastiche vergini prodotte fino ad oggi, sarebbero infatti ben 6.300 quelle generate dopo il 2015. E le stime dicono che saranno 12mila quelle presenti in discarica o nell’ambiente naturale entro il 2050, cioè il 79% della produzione. Una quantità spaventosa stimata sul business as usual, ovvero sulla base della prassi condotta finora, che ha visto riciclato solo il 9% dei rifiuti plastici, mentre il 12% è finito negli inceneritori.

L’UNEP avvisa: «Si tratta di una questione sociale, ambientale ed economica complessa di scala globale che deve prendere in considerazione una serie di fattori, in particolare un’aspetto di equità intragenerazionale».

La farfalla cinese ha chiuso le ali, e un’ondata di plastica travolge il mondo

ll problema è pronto ad esplodere, accelerato dallo stop alle importazioni stabilito dalla Cina nel 2018. Una chiusura delle frontiere del Dragone che ha avuto l’effetto positivo di accrescere la consapevolezza internazionale della gravità del fenomeno. Come dimostrano le parole di Marco Buletti, vice responsabile della divisione Rifiuti e materie prime presso l’Ufficio federale dell’ambiente, rilasciate alla tv svizzera alla vigilia del meeting di Ginevra: «Ho l’impressione che gli Stati stiano iniziando a riconoscere il fatto che i rifiuti di plastica costituiscono un pericolo globale, se non vengono trattati in modo ecologicamente corretto».

Tuttavia, chiusa la rotta cinese, si assiste all’invasione di rifiuti inquinanti in Paesi assai meno attrezzati per uno smaltimento corretto. Come denunciato da un recente rapporto di Greenpeace, sulle esportazioni e importazioni di materie plastiche riconducibili al codice doganale 3915 (scarti di lavorazione, cascami, rifiuti industriali e avanzi di materie plastiche) da e per i 21 principali Paesi. Italia compresa, e protagonista.

GRAFICO export extra Ue di rifiuti in plastica 2016-2018 dall’Italia – fonte rapporto ‘Le rotte globali, e italiane, dei rifiuti in plastica’ di Greenpeace

Dall’indagine emergono, tra le destinazioni del traffico, Malesia, Turchia e Vietnam, oltreché Thailandia, Romania e Slovenia. In una perversa dinamica competitiva, ad esempio, nazioni come India, Taiwan, Corea del Sud, Turchia e Indonesia hanno visto aumentare le importazioni proprio nel momento in cui altri Stati dell’area (Malesia, Vietnam e Thailandia) adottavano restrizioni, sulla scia delle scelte cinesi.

No ai rifiuti indesiderati, nonostante le lobby guidate dagli USA

E così alla quattordicesima Conferenza delle Parti della Convenzione di Basilea è stato deciso di premere il freno. E in modo deciso. Perché a larghissima maggioranza sono state approvate nuove restrizioni all’export avanzate dalla Norvegia. Nonostante l’opposizione di Argentina, Brasile. E contro il volere sia delle lobby delle industrie chimiche e produttrici di materie plastiche che degli Stati Uniti.

Gli USA, che non hanno sottoscritto né ratificato la Convenzione, sono i maggiori esportatori globali di rifiuti plastici: nel 2018 dall’America – rivela il network per la sicurezza chimica IPEN – sono partiti 157mila grandi container colmi di rifiuti plastici misti, indirizzati verso «Paesi in via di sviluppo già sopraffatti dall’inquinamento plastico».

GRAFICO flusso export di rifiuti in plastica 2016-2018 dai 21 Paesi principali – fonte rapporto ‘Le rotte globali, e italiane, dei rifiuti in plastica’ di Greenpeace

Le novità del 2020

Dal prossimo anno, quando entreranno in vigore, anche gli USA dovranno perciò fare i conti con le nuove regole approvate a Ginevra. A cominciare da quella per cui un’azienda che volesse spedire all’estero rifiuti di plastica contaminati, misti o non riciclabili dovrà avere l’autorizzazione del Governo del Paese destinatario, che quindi non potrà non risultare informato del contenuto di ciò che importa. Oltre a ciò sono previste azioni finalizzate a ridurre l’incremento del fenomeno:

  • Rimozione o riduzione dell’uso di sostanze chimiche pericolose nella produzione di materie plastiche e in qualsiasi fase successiva del loro ciclo di vita.
  • Definizione di obiettivi specifici di raccolta e obblighi per i produttori di materie plastiche per coprire i costi di gestione e pulizia dei rifiuti.
  • Prevenire e ridurre al minimo la generazione di rifiuti di plastica, anche aumentando la durata, la possibilità di riutilizzo e riciclo dei prodotti in plastica.
  • Riduzione significativa dei prodotti in plastica monouso.

«Sfortunatamente, – precisa IPEN – un gruppo di resine polimerizzate e polimeri fluorurati non è stato incluso nel requisito del consenso informato preventivo, il che significa che possono essere liberamente scambiati senza notifica». Ma la marcia indietro sembra comunque avviata. E certamente queste decisioni incideranno a livello internazionale. Anche perché l’Europa ha scelto formalmente in quale direzione andare: e il 20 maggio 2019 è arrivato il via libera definitivo del Consiglio d’Europa alla direttiva che bandisce dal 2021 la commercializzazione di prodotti in plastica usa e getta (piatti, posate, cannucce, aste per palloncini e i cotton-fioc…).