Polaroid delle nostre vite spericolate
Energia, trasporti, CO2. E gli intrecci con la finanza. Ogni settimana il punto sui cambiamenti climatici firmato da Andrea Barolini
Nei nostri frigoriferi e negli scaffali dei supermercati sono stipati più scatole e imballaggi che cibo. Siamo sommersi dalla plastica usa e getta, prodotta con il petrolio e che poi finisce nei fiumi, nei mari e torna a casa nostra negli alimenti che cuciniamo, per finire nei nostri stomaci.
Una quantità enorme di oggetti che acquistiamo viene fabbricata dall’altra parte del mondo. Prima di arrivare da noi percorre migliaia e migliaia di chilometri. Merce che spesso costa talmente poco – magari grazie a salari da fame e all’assenza di diritti sindacali – da indurre il consumatore a sostituire i prodotti, quando si rompono, anziché ripararli. I casi di obsolescenza programmata mettono il turbo al meccanismo. Stesso discorso per le scarpe o per i vestiti. Questi ultimi, tra l’altro, spesso sono fatti di plastiche – poliestere & co. – che ad ogni lavaggio finiscono nei tubi di scarico (e poi anche in questo caso fiumi, mari, catena alimentare, ecc.).
Da Napoli a Milano ci andiamo con l’aereo low cost, perché costa meno del treno. Per le vacanze al mare abbiamo inventato – e “democratizzato” – la crociera. E pazienza se il solo leader del settore disperde ogni anno, con qualche decina di navi, gli stessi agenti inquinanti di 260 milioni di automobli. Le merci, poi, vengono trasportate su immense portacontainer che si prevede passeranno sempre più spesso dalle rotte artiche: liberate dalla fusione della calotta polare, provocata dall’innalzamento della temperatura media globale, causata dalle emissioni climalteranti di origine antropica.
Siamo abituati ad utilizzare internet senza limiti e a prezzi stracciati, e nessuno ci avverte, quando firmiamo un contratto, che inviare una mail con un allegato di 1MB equivale a tenere accesa due ore una lampadina da 20 watt. Compriamo e vendiamo bitcoin, le cui transazioni consumano l’energia di una nazione intera, mentre d’inverno stiamo sul divano in maglietta con i riscaldamenti “sparati” e il termometro interno che segna +24°.
In settimana bianca possiamo scegliere hotel a mille metri d’altitudine con piscine esterne riscaldate. E dopo una giornata di sci sulla neve (artificiale) possiamo goderci un aperitivo all’aperto (bottiglia di plastica di Coca-Cola e avocado, ovviamente) col confort di una decina di stufe che bruciano gas. Non a dicembre 2022 però: in quel periodo saremo occupati a seguire i mondiali negli stadi climatizzati del Qatar. Chissà se anche lì, in zone semi-desertiche, si usa l’acqua potabile per scaricare l’acqua del wc.
Come? «Ma chi ha i soldi per andare a vedere i mondiali in Qatar?», avete detto? Magari potete provare ad arrotondare gli stipendi speculando sulle criptovalute. O affidando i vostri investimenti a trader spericolati che scommettono sulle materie prime rischiando di mettere in ginocchio popolazioni intere. O alle grandi banche europee che ancora investono più di 500 miliardi di euro nelle fossili: avranno ragione, no? Se non lo sanno loro cosa è meglio per fare soldi…
L’elenco potrebbe continuare. La realtà è che uno dei motivi principali per cui è così difficile combattere la battaglia climatica è che dobbiamo accettare che il modello di sviluppo attuale – capitalista, ultra-liberista e iper-consumista – è semplicemente incompatibile con una gestione sostenibile delle risorse, degli ecosistemi, della biodiversità. Prima lo accetteremo, più possibilità avremo di non lasciare dietro di noi solo macerie.