Precarietà e sommerso: l’altra faccia dell’agroalimentare italiano

I recenti rapporti del sindacato Cgil e dell’associazione Terra! fanno luce sulle atrocità sistemiche dell'agroalimentare

Gli studi di Cgil e Terra! su precarietà e sommerso nell'agroalimentare © JackF/iStockPhoto

L’atroce morte del bracciante trentunenne Satnam Singh il 19 giugno scorso nell’azienda Lovato in provincia di Latina ha portato sotto i riflettori le atrocità sistemica del settore agroalimentare. Una realtà fatta di precarietà e sommerso, come confermano i recenti rapporti del sindacato Cgil e dell’associazione Terra!.

Quanti lavoratori agricoli in Italia sono irregolari

Il 4 dicembre a Roma è stato presentato il VII rapporto su Agromafie e caporalato di Flai-Cgil (Federazione lavoratori agro industria della Confederazione generale italiana del lavoro) redatto ogni anno dalla Fondazione Rizzotto. Secondo i dati dell’Istituto nazionale di statistica (Istat) riportati nel documento, il settore agricolo ha raggiunto nel 2023 un valore economico di 73,5 miliardi di euro. 872.100 i lavoratori, fra dipendenti e indipendenti. Ecco, di questi circa il 30% (ossia 200mila persone, fra cui 55mila donne) sono irregolari. Dati «certamente sottostimati» e che comprendono «una larga parte di lavoro sfruttato e finanche pratiche para-schiavistiche».

Le statistiche fornite dal ministero dell’Economia e delle finanze nel 2020 segnalano che circa il 30% delle aziende italiane impiega lavoro “grigio”, non del tutto regolare. Mentre il lavoro nero ne riguarderebbe il 10%. I dati dell’Ispettorato nazionale del lavoro del 2023 fotografano una situazione ancora più grave. Il tasso di irregolarità complessivo è del 69,8%, con il settore agricolo che raggiunge un preoccupante 59,2%. Non c’è solo il lavoro nero. «Alcune aziende non pagano i lavoratori ma segnano le ore di lavoro in modo che questi possano percepire ammortizzatori sociali come la disoccupazione al posto dello stipendio», racconta Daniele Calamita, agronomo, sindacalista ed esperto di politiche sociali. Una pratica sconcertante e inquietantemente diffusa.

Controlli ancora sporadici ma denunce in aumento

Alla morte di Singh, che il rapporto Flai-Cgil definisce senza mezzi termini come “omicidio” e sulla quale la magistratura deve ancora esprimersi, sono seguite tre grosse operazioni delle forze dell’ordine. Rispettivamente il 3 luglio, il 25 luglio e i primi giorni di agosto. Sono emersi tassi di irregolarità fra il 53 e il 66% e i controlli sono avvenuti su 1.377 aziende, «in due mesi quasi la metà delle ispezioni effettuate in tutto il 2023». Un’impennata che però si è poi subito sgonfiata, rientrando nella media dell’anno precedente. Se ci fosse una reale volontà di cambiare le cose avremmo bisogno di controlli e segnalazioni costanti, fino a ripulire l’intero settore. Ma le azioni intraprese restano sporadiche e la macchina dell’illegalità sembra riprendersi con la stessa velocità con cui viene fermata. Certo non aiuta il preavviso di 10 giorni dato alle aziende prima delle ispezioni.

Un aumento significativo però c’è stato. Già nel 2023 i controlli erano stati il 140% in più rispetto al 2022 e gli arresti l’80% in più. Sono aumentate anche le denunce, con un importante +207%, e le condanne sono triplicate rispetto al 2022. Si parla di 2.123 condanne su 3.208 casi, considerando tutti i settori, non solo quello agricolo.

Una «piramide dello sfruttamento» che tiene in vita l’agribusiness

«Le retribuzioni della maggior parte dei dipendenti agricoli sono al di sotto della soglia di povertà retributiva» si legge nel documento. La retribuzione lorda media è di 6mila euro l’anno, che possono arrivare a 12mila mettendo insieme altri lavori. Mentre si aggirano sui 73,5 miliardi i margini economici generati dal settore.

Un sistema in cui cospicui segmenti della filiera dello sfruttamento sono controllati dalla criminalità organizzata. E «la cui disfunzionalità tende a scaricarsi sull’anello più debole della catena, immigrati e donne». Il tema è che, senza questa «piramide dello sfruttamento», l’agroalimentare per come è concepito non potrebbe funzionare. In questo senso la legge Bossi-Fini, che impedisce a una persona irregolare già su territorio italiano di ottenere un permesso di soggiorno lavorativo, contribuisce a mantenere in piedi il sistema stesso.

Com’è cambiato il caporalato

Con caporalato normalmente si intende quella forma illegale e simil-mafiosa di reclutamento di manodopera dipendente. Si assoldano immigrati stranieri spesso senza permesso di soggiorno per pochissimi euro al giorno, fra i 3,5 e i 4,5. Una paga letteralmente da fame, a fronte di giornate lavorative di 12-14 ore, senza ferie né malattia. Lavoratori marginalizzati e ricattabili che le istituzioni non riescono a raggiungere perché sono invisibili. Un reportage di Ferdinando Cotugno per Domani racconta le tendopoli di Gioia Tauro dove i braccianti vivono per evitare spostamenti troppo lunghi durante la raccolta degli agrumi: dovrebbero trascorrervi pochi mesi ma ci restano incastrati per anni, in condizioni di precarietà materiale e psichica devastanti.

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Secondo Daniele Calamita «negli ultimi 10/15 anni il caporalato è cambiato molto. Restano ancora tanti immigrati senza permesso di soggiorno, sicuramente i più ricattabili. L’aspetto che salta all’occhio oggi però è la forte presenza di bulgari e rumeni. Non hanno problemi di documenti ma si trovano lo stesso a lavorare in condizioni tremende. Spesso non si rendono nemmeno conto della situazione, vivono il caporale come una sorta di benefattore, un’agenzia che aiuta a trovare lavoro. Ma il modus operandi di schiavitù, anche psicologica, è lo stesso. È una realtà ben visibile per esempio nell’ortofrutticolo di Foggia».

Non è l’unico cambiamento. Se fino ad alcuni anni fa il fenomeno sembrava riguardare soprattutto il Sud Italia, oggi concerne tutto il Paese. Anzi, un terzo dei 405 distretti in cui avviene il reato si trova al Nord. Lo rileva l’associazione Terra! col rapporto Cibo e sfruttamento – Made in Lombardia uscito a luglio. Il documento si concentra su tre filiere (carne suina, insalate in busta e melone) e racconta come la regione sia la prima per produzione agroalimentare, per un valore economico di oltre 14 miliardi di euro. Ma anche fra le «più colpite da procedimenti giudiziari riguardanti il caporalato».

Precarietà e sommerso nell’agroalimentare: c’è una via d’uscita?

Risale al 2016 la legge 199, che ha permesso di perseguire legalmente non solo l’intermediario, il cosiddetto caporale appunto, ma anche l’imprenditore agricolo. Il problema però è ben lontano dall’essere risolto, anzi. «Pochissimi imprenditori vengono condannati, c’è una profonda deresponsabilizzazione del mondo produttivo», spiega Daniele Calamita: basta far finta di non sapere, scaricando la responsabilità solo sui caporali.

Sembra difficile trovare una via d’uscita. All’apice ci sono le grandi industrie e la Grande distribuzione organizzata (Gdo) che richiedono allo stesso tempo prezzi bassi ma prodotti alimentari iper-lavorati. Questo provoca una compressione dei guadagni per gli agricoltori e una conseguente riduzione dei costi, in particolare quelli legati alla forza lavoro. Il fenomeno del caporalato è legato soprattutto all’agricoltura intensiva e ha radici complesse: la frammentazione degli agricoltori, il malfunzionamento delle Organizzazioni di produttori (Op), le politiche di approvvigionamento della Gdo, il modello produttivo nel suo insieme.

Ne risultano una filiera fragile e uno sfruttamento strutturale del lavoro da cui uscire sembra impossibile, a meno di non cambiare l’intero sistema.