Rating, debiti e inflazione: la Brexit secondo S&P

L’Hard Brexit potrebbe portare a una revisione negativa del rating britannico. All’orizzonte inflazione, disoccupazione, debito in ascesa e povertà per i cittadini

Matteo Cavallito
© ChiralJon/Flickr
Matteo Cavallito
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In caso di Hard Brexit – l’uscita senza accordo del Regno Unito dall’Unione Europea – Londra potrebbe andare incontro a una revisione negativa del rating sovrano. Lo ha sostenuto in questi giorni l’agenzia Standard & Poor’s. Ma il fenomeno sarebbe piuttosto esteso. La crisi economica innescata dal divorzio no deal  impatterebbe infatti anche sul rating degli operatori del settore privato. A soffrirne sarebbero le istituzioni finanziarie – banche e assicurazioni – così come le imprese manifatturiere. L’addio del Regno Unito alla UE, salvo rinvii, è fissato per il 29 marzo prossimo.

La Brexit colpisce le banche

Nella sua ultima analisi S&P mantiene comunque una certa cautela. I downgrade, i declassamenti veri e propri del rating, non appaiono imminenti. Assai più probabili, per il momento, le revisioni dell’outlook, ovvero delle prospettive di breve termine, pronte a virare sul negativo in risposta alle difficoltà macroeconomiche.

In uno scenario di crisi, nota in particolare l’agenzia, l’insolvenza sui prestiti da parte di individui e imprese tenderebbe ad aumentare. Le banche, di conseguenza, dovrebbero fare i conti con un deprezzamento del valore dei crediti in portafoglio. Il fenomeno danneggerebbe gli istituti in termini di «ricavi ed eventualmente di capitalizzazione».

La recessione crea disoccupazione

Dal referendum ad oggi, nota ancora l’agenzia, l’economia britannica sembra aver risposto bene. Anche perché fino ad ora – è evidente – il Paese ha continuato ad avere pieno accesso al mercato UE. Ma l’uscita senza accordo – è altrettanto noto – si tradurrebbe immediatamente nell’introduzione di dazi standard con gravi danni alle relazioni commerciali tra le due aree.

Risultato? Un rapido deterioramento dell’economia, sostiene S&P. Il Pil pro capite misurato in valuta americana – un ordine di grandezza standard – andrebbe incontro a una contrazione del 14% rispetto ai livelli del 2018 (42.300 dollari) complice la svalutazione della sterlina sul biglietto verde. La recessione si manifesterebbe già nel 2019 e troverebbe conferma anche l’anno successivo. Per ottenere un’inversione di tendenza dovremo attendere fino al 2021. A quel punto, stima ancora l’agenzia, il tasso di disoccupazione viaggerebbe a quota 7,3% contro il 4,7% odierno.

Il conto dell’inflazione lo pagano i lavoratori

Nella sua analisi, Standard & Poors ha così confermato le previsioni già espresse nei mesi scorsi quando aveva puntato il dito sugli effetti diretti della crisi per i lavoratori britannici. E il problema, come si diceva, è legato soprattutto all’inflazione.

L’aumento generale dei prezzi riduce infatti il potere d’acquisto dei salari. In pratica è come se a pagare i costi della Brexit fossero in primo luogo i lavoratori. È un trend di lungo periodo: negli ultimi dieci anni, per dire, l’aumento dei prezzi è ha superato molto spesso quello delle retribuzioni. Alla fine del 2014, grazie soprattutto al forte calo del petrolio, la tendenza si è invertita. Ma, a partire dal 2017, l’inflazione ha ripreso ad aumentare in misura maggiore rispetto ai salari. Nel 2018, la crescita del potere d’acquisto è tornata in territorio positivo. Difficile, tuttavia, pensare che la spinta inflazionistica post Brexit non innescherà una nuova discesa.

L’andamento dei salari reali nel Regno Unito (2009-2018). Un valore inferiore allo zero evidenzia una perdita di potere d’acquisto. Fonte: Office for National Statistics del Regno Unito Open Government Licence v3.0

Rischio debito

Alla fine dei conti, tutto si risolverebbe in un peggioramento del bilancio pubblico. La crescita della disoccupazione determina maggiore spesa per i sussidi, la recessione riduce le entrate fiscali e l’inflazione, infine, impatta negativamente sui costi di finanziamento («La spesa per interessi del governo aumenterebbe visto che circa un quarto del debito britannico è indicizzato all’inflazione» rileva S&P). A conti fatti, sostiene l’agenzia, una Brexit senza accordo potrebbe spingere il rapporto debito/Pil britannico a quota 100% del Pil contro l’85% teorico ipotizzato in caso di permanenza nella UE. Uno scenario, quest’ultimo, ovviamente non più possibile.

Stallo sulle trattative

Il rapporto dell’agenzia contiene comunque una nota di speranza. «Sebbene il rischio di una Brexit senza accordo rimanga alto» si legge, «l’incentivo a negoziare per il Regno Unito e l’Europa rimane molto forte». È una situazione paradossale.

Sia Londra che Bruxelles sembrano essere consapevoli dell’esistenza di un prezzo da pagare per entrambi in caso di mancato compromesso. L’impasse politica tuttavia continua a prevalere.

La spinosa questione irlandese, in particolare, è lontana dall’essere risolta. Con tutto quel che ne deriva. L’ipotesi di un rinvio tecnico al divorzio, con una proroga ai negoziati fino al mese di giugno, ha preso ultimamente corpo. In merito alla richiesta di riapertura del negoziato, però, il presidente della Commissione europea Juncker non sembra disposto a cedere. Almeno per ora.