Referendum, cinque sì per difendere la dignità del lavoro e delle persone
L'opinione di Simone Siliani, direttore di Fondazione Finanza Etica, sui referendum che si terranno i prossimi 8 e 9 giugno
C’è un motivo fondamentale per cui è importante votare ed esprimersi per il sì ai referendum dell’8 e 9 giugno: la loro aderenza alla lettera e allo spirito della Costituzione. Nel giorno del 79esimo anniversario della scelta della Repubblica da parte degli italiani, questo riferimento assume un significato ulteriore: quello di un lavoro mai compiuto della concreta trasformazione di questo Parse in una Repubblica fondata sul lavoro.
Le italiane e gli italiani che votarono per la repubblica nel 1946 non potevano ovviamente ancora sapere cosa i costituenti avrebbero scritto nella Costituzione sui temi del lavoro, a partire dall’articolo 1. Ma è come se italiane e italiani, dicendo no alla monarchia e alla famiglia regnante che l’aveva rappresentata dal 1870 e che li aveva abbandonati codardamente nelle mani dei nazisti invasori e dei fascisti repubblichini loro alleati, avessero dato un mandato ai costituenti non per una qualsiasi Repubblica. Ma per questa Repubblica, dai tratti sociali così marcati.
Ecco perché noi troviamo le radici per il nostro impegno per il sì ai referendum di giugno nella nostra Costituzione. Per i quattro quesiti sul lavoro vale, per i tanti articoli che nella nostra Costituzione trattano direttamente o indirettamente il tema del lavoro, l’articolo 36: «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa».
L’Italia non è una Repubblica fondata su un lavoro qualunque (art.1) ma su un lavoro dignitoso. Che vuol dire giusto (per retribuzione), equo (proporzionato a qualità e quantità del lavoro), sicuro (per le condizioni di lavoro e per la vita dignitosa delle persone).
Con la scusa della flessibilità e di altri espedienti comunicativi, il lavoro è stato reso, con la complicità delle leggi che qui si vogliono abrogare, rischioso, malpagato, insicuro, indegno. Quattro sì servono a invertire questa rotta incostituzionale e restituire dignità al lavoro.
Francesca Coin ha scritto due anni fa un libro interessante, che ogni cittadino e cittadina, ma anche ogni rappresentante di questa Repubblica dovrebbe avere presente: Le grandi dimissioni. Il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vita (2023, Einaudi, Torino). Se milioni di persone, negli Stati Uniti, nel mondo anglosassone, ma anche in Italia preferiscono abbandonare il lavoro non è perché sono fannulloni o a causa del reddito di cittadinanza, ma perché è un lavoro povero, che non essendo retribuito dignitosamente non consente di assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa.
È un lavoro che ha perso quel senso, quella funzione di liberazione dalla dipendenza altrui, di libertà e di contribuzione alla società, alla comunità che ne faceva l’architrave della Repubblica voluta dai costituenti. I quesiti referendari sono paradigmatici al proposito. Si intende abrogare una parte di una legge (il famoso Jobs Act di renziana memoria) che impediva di reintegrare al lavoro una persona che fosse stata licenziata ingiustamente e senza fondamento, dopo che un giudice (non un sindacato) l’avesse riconosciuta tale! Un parte di una legge che dunque si limitava a monetizzare (poco, in verità) la condanna di un licenziamento ingiusto. Questo referendum ripristina un fondamentale principio di giustizia: chi licenzia senza giusta causa deve reintegrare la persona nel suo posto di lavoro.
Mentre un altro quesito elimina, per le piccole imprese con meno di 16 dipendenti, il limite massimo di 6 (sei!) mensilità di risarcimento per un licenziamento illegittimo, che dunque stabiliva che ci sono categorie di lavoratori meno tutelati di altri.
Per non parlare dei precari, quelli che vanno avanti una vita a forza di contratti a termine, senza alcuna ragione oggettiva che li motivi: il terzo quesito elimina questa ingiustificata flessibilità per i contratti a tempo determinato ripristinando l’obbligo almeno di causali oggettive per il ricorso a questi contratti.
Poi c’è la sicurezza sul lavoro: uno stillicidio di morti e feriti, nemmeno fosse una guerra andare a lavorare. Così, ogni volta, si contano i morti e ci si stracciano le vesti; ma siccome niente cambia, allora forse qualcosa si dovrebbe fare. E siccome la politica non è in grado di imporre alle imprese di vigilare e assumersi responsabilità sul modo con cui le imprese appaltatrici obbligano le persone a lavorare, allora occorre tornare a norme che rendano più difficile appaltare il lavoro ad imprese prive di solidità finanziaria, spesso non in regola con le norme antinfortunistiche. Per far questo l’unico modo è che le imprese appaltanti condividano con le imprese appaltatrici la responsabilità sulla sicurezza sul lavoro.
Se ciò non piace o turba i sonni degli imprenditori è perché sanno benissimo che il sistema dei subappalti è un meccanismo che serve a scaricare costi e responsabilità su altri (in ultima istanza sulle persone lavoratrici) e permette a loro di vincere gare, guadagnando senza rischiare. Ma la nostra Costituzione impone allo Stato di regolare l’attività d’impresa affinché non deragli dai binari stabiliti dall’articolo 41 secondo il quale l’iniziativa economica privata è libera, ma «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale, o in modo da recare danni alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana».
Per il quesito sulla cittadinanza, l’aggancio costituzionale è agli art.2 e 10 della Carta con i quali «la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». E «lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge».
Sono questi due articoli a imporci il dovere, direi l’obbligo civile e politico, di facilitare il riconoscimento della pienezza dei diritti e dei doveri per le persone che, pur di cittadinanza straniera, svolgono la loro personalità all’interno delle formazioni sociali del nostro Paese (la scuola, i luoghi di lavoro, la società civile). Se vogliamo aderire davvero ai sacri principi democratici e dei diritti dell’uomo dobbiamo facilitare l’acquisizione della cittadinanza italiana e non impedirla ad ogni costo come le norme italiane che si vogliono abrogare fanno con le persone (titolari di diritti in quanto essere umani e non discriminabili per nascita e provenienza) straniere immigrate.
È un gesto di civiltà e di speranza nel futuro votare sì a questi cinque referendum.
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