Regole europee per la finanza sostenibile: molti le temono, (quasi) tutti le vogliono

Piovono critiche sulle nuove norme Ue per la finanza sostenibile, giudicate difficili e costose da applicare. Ma anche fondamentali per fare chiarezza

Le nuove regole Ue per la finanza sostenibile impongono a operatori finanziari e imprese di raccogliere e divulgare numerose e dettagliate informazioni sugli impatti ESG © z_wei/iStockPhoto

Mancano pochi mesi all’entrata in vigore delle nuove, tanto attese, normative europee sulla finanza sostenibile (le prime già a marzo 2021) e da diverse parti piovono critiche. Sono irrealizzabili, troppo costose da implementare, i dati richiesti non esistono. E ancora: non c’è abbastanza tempo, non c’è chiarezza, le norme non sono tra loro allineate. Queste le principali critiche e obiezioni. Arrivano da asset manager, provider di rating ESG, da gruppi imprenditoriali, da alcuni organismi internazionali dedicati agli investimenti responsabili. Contemporaneamente, però, da ogni dove arrivano segnali di allarme sulla mancanza di chiarezza e di trasparenza riguardo le informazioni ESG (environmental, social, governance, cioè ambientali, sociali e di buona gestione aziendale) sulle aziende e sugli investimenti responsabili. 

Sentendo le diverse parti coinvolte, la verità, come spesso accade, pare essere nel mezzo. Il lavoro portato avanti dalla Commissione europea, da ormai quattro anni, per cercare di fare chiarezza e dare un corpo legislativo univoco alla finanza sostenibile è fondamentale. Lo ammettono tutti. Ma, da un lato, definire e misurare la sostenibilità è complesso e delicato. E, dall’altro, si tratta di un cambiamento, che, come tale, necessita tempo per essere “digerito” e comporta delle trasformazioni all’interno delle realtà coinvolte. Il tutto complicato dal fatto che gli interessi economici in gioco sono elevati (il mercato vale migliaia di miliardi) e che, in effetti, al momento mancano alcuni (parecchi) tasselli (legislativi e tecnici).

Di che norme stiamo parlando?

Ma quali normative stanno per entrare in vigore? Quando? E chi verrà impattato?

Sono diverse le norme in ambito di finanza sostenibile pronte ai blocchi di partenza. Due in particolare quelle che hanno ricevuto più critiche e che preoccupano di più chi a breve le dovrà applicare: sono la Tassonomia della finanza sostenibile (il regolamento 2020/852in vigore dallo scorso giugno, ma per il quale devono essere stabiliti i criteri tecnici di selezione delle attività economiche sostenibili, con gli atti delegati che verranno pubblicati entro fine 2020), che impone a chi propone un investimento responsabile di  rendicontare in che misura (in che percentuale) le aziende presenti nel proprio portafoglio investito sono allineate (in termini di fatturato) alla classificazione delle attività sostenibili (la tassonomia appunto) stabilita dall’Ue.

E, ancor più temuto, il regolamento per la rendicontazione della sostenibilità dei servizi finanziari (SFDR, sustainability‐related disclosures in the financial services, il regolamento 2019/2088, anche per questo entro fine anno verranno pubblicati gli atti delegati), in base al quale gli istituti finanziari dovranno divulgare informazioni su come integrano i rischi ESG e come prendono in considerazione gli impatti negativi delle proprie politiche d’investimento su ambiente e temi sociali; la disclosure su rischi e obiettivi di sostenibilità dei prodotti dovrà essere inclusa nella documentazione precontrattuale, nella reportistica periodica e sul sito internet.

Su chi ricadono le nuove norme Ue

Chi è coinvolto nell’applicazione di queste norme? Un po’ tutto il mondo dell’investimento responsabile. Da un lato chi l’investimento responsabile lo propone – quindi asset manager, fondi pensione e collocatori – che dovranno fornire informazioni dettagliate sull’impatto, ambientale, ma in alcuni casi anche sociale e di governance, dei propri investimenti responsabili. Ma anche le agenzie di rating ESG, che raccolgono le informazioni e attribuiscono i voti sulla sostenibilità delle imprese. E, nodo cruciale, le stesse imprese, che dovranno fornire le informazioni a chi investe su di loro. Tutti questi soggetti dovranno attrezzarsi per  rispondere alle nuove dettagliate richieste contenute nelle norme Ue. E in molti casi reperire i dati sarà un’operazione difficilissima, se non impossibile. Di certo molto costosa.

Negli ultimi mesi in molti, tra i soggetti coinvolti dalle normative, hanno manifestato preoccupazioni per le ripercussioni delle decisioni dell’Ue. Secondo un recente report di InfluenceMap soltanto il 5% dei 63 maggiori gruppi finanziari supporta strategicamente la politica di finanza sostenibile della Commissione Europea. 

Il nodo dei dati, che spesso non ci sono

Uno dei punti cruciali sono i dati richiesti dalle norme. Che in molti casi semplicemente non ci sono, nel senso che non vengono misurati dalle aziende. Un’indagine condotta dall’organizzazione non profit CDP, insieme a MSCI e State Street Global Advisors (SSGA), indica che i dati richiesti, in particolare dalla normativa sulla rendicontazione ESG da parte degli operatori finanziari (Sfdr), non sono disponibili per molti degli indicatori, soprattutto quelli relativi alle emissioni di acqua, alle politiche aziendali sulla tratta di esseri umani e alle emissioni di sostanze che riducono lo strato di ozono. Il regolamento prevede, infatti, che gestori patrimoniali e gruppi finanziari segnalino gli impatti socialmente e ambientalmente dannosi, o “negativi”, delle loro partecipazioni complessive sulla base di 32 indicatori di rendicontazione obbligatori proposti dalle autorità di regolamentazione del mercato europeo. Tutti dati che devono essere forniti dalle aziende presenti nel portafoglio investito.

«Il problema non è tanto reperire il dato, spesso il dato semplicemente non esiste», spiega Gianluca Manca, Responsabile Sustainability di Eurizon (gruppo Banca Intesa). «Le difficoltà nella rendicontazione e nel reperimento dei dati dipendono anche dal tipo di richieste – continua Guanluca Manca – Prendiamo, per esempio, le informazioni in merito alle emissioni inquinanti. Queste rispondono ai tre “scopi”: il primo riguarda le emissioni dirette dell’azienda, il secondo chi produce e fornisce l’energia, il terzo chi fornisce beni o servizi. Per realtà particolarmente articolate anche a livello geografico può essere difficile raccogliere i dati su tutti e tre i fronti».

Un problema per le piccole e medie imprese

«Il tema dei dati è particolarmente rilevante per le piccole e medie imprese, che non hanno avuto modo, anche come forza lavoro, di prepararsi alle richieste dell’Ue – commenta Gianluca Manca – Le grandi imprese invece si sono già attrezzate per farlo, dal momento che sono obbligate alla rendicontazione non finanziaria delle loro attività dal 2016, dalla direttiva Ue sulla rendicontazione non finanziaria (la 2014/9575 DNF, che attualmente si applica a circa 6mila società quotate, banche e imprese assicuratrici, ndr). Le Pmi in Europa rappresentano il 70% della forza lavoro, in Italia arriviamo anche al 90%. Saranno costrette a rivolgersi a un consulente esterno e i loro costi cresceranno. Un impatto pesante considerando che il lockdown le ha messe già abbastanza in ginocchio».

«Le Pmi rischieranno di essere penalizzate da queste nuove norme, anche in termini di esclusione dai portafogli di investimento responsabile», aggiunge Francesco Sandrini, Head of Multi Asset Balanced, Income and Real Returns Solutions di Amundi. «Perché – continua – noi asset manager dovremo attenerci alle nuove norme per costruire il nostro portafoglio: se un azienda che prima era presente non riuscirà a rendicontare i dati richiesti, rischia di essere esclusa».  

Cambieranno gli investimenti responsabili

Ci sarà un impatto sui portafogli di investimento responsabile? Cambierà il modo di “costruirli? «Sicuramente le diverse normative avranno un impatto sul portafoglio dell’investimento responsabile – spiega Gianluca Manca di Eurizon – Non tutte le aziende presenti oggi, lo saranno in futuro». «Ma per noi sarà un bene – aggiunge Francesco Sandrini di Amundi –  Collochiamo fondi responsabili in diversi Paesi europei e incontriamo 7/8 label diverse. Abbiamo grossi problemi a gestire fondi collocabili con un certificato di sostenibilità in più di uno Stato. Una situazione che ha generato una fortissima frammentazione di prodotto. In futuro sarà sempre più importante appoggiarci sulla nostra ricerca interna, che si baserà di più sulla tassonomia. E verrà ridotto l’universo investibile».

L’impatto per chi li “costruisce”

«Di certo dovremo modificare in parte le nostre procedure (ci stiamo già attrezzando) e servirà più forza lavoro, soprattutto per il reperimento dei dati. Ma nel nostro caso non sarà un problema», spiega Gianluca Manca.

«Entrambe le normative, sia la tassonomia, sia la Sfdr, avranno un impatto sulla nostra operatività, ma non solo per noi. Non riguarderà un segmento del mercato, ma tutto il mercato. Ci sarà un onere anche per le aziende e per i distributori – aggiunge Francesco Sandrini – Gestiamo molti fondi e molti sono sostenibili e ESG. Ma questo tipo di approccio non viene richiesto solo sulla reportistica dei gestori, ma anche da parte dei collocatori. Viene richiesta una rendicontazione dettagliata, per esempio, sulle politiche di esclusione di settori e sulla scelta delle aziende in portafoglio. È un’importante armonizzazione nell’approccio alla sostenibilità tra gestori e distributori. C’era la necessità di convergere verso gli stessi criteri. Per questo stiamo lavorando a stretto contatto con i distributori, per avere un approccio integrato».

«Noi useremo, in parte già lo facciamo, metodologie di selezione interna per classificare le aziende in base ai rating ESG – continua Francesco Sandrini – I provider ESG continueranno ad essere utili, nel reperimento delle informazioni ESG sulle aziende catalogate con gli standard imposti dalla Ue.  Certo, ci sarà un aggravio di costi per tutti. Sarà molto più complesso lanciare prodotti responsabili a costi sostenibili».

Dalle normative Ue molte richieste, non allineate tra loro

Un’altra delle critiche sollevate riguarda la pluralità di richieste che provengono dalle diverse norme, non sempre coerenti tra loro. Lo stesso organismo delle Nazioni Unite dedicato agli investimenti responsabili, l’UnPri, ha espresso delle preoccupazioni per un apparente non allineamento tra le nuove regole di divulgazione di informazioni sulla sostenibilità degli operatori finanziari, la tassonomia green dell’Ue e le regole per la rendicontazione non finanziaria da parte delle imprese. Ciascuna delle quali avrebbe richiesto una rendicontazione separata su una varietà di indicatori correlati ma non allineati. La rete ha richiesto che le autorità di regolamentazione europee pubblichino un “quadro coerente” su come ciascuna delle iniziative di divulgazione funzionerebbe insieme alle altre.

«La mancanza di uniformità attiene più che altro alle diverse scadenze dei vari tavoli che stanno lavorando alle normative europee – aggiunge Gianluca Manca – se la Sfdr è pronta, ma la tassonomia no, si innesca un disallineamento, che può creare problemi alle realtà che devono rispondere alle diverse richieste del legislatore».

«All’ultimo incontro alla Commissione abbiamo chiesto un coordinamento tra i diversi tavoli e una scadenza unica. Ma per ora non si sa. Comunque a questa non uniformità di date non corrisponde una non uniformità di intenti, che invece sono assolutamente allineati», precisa Gianluca Manca, che segue diversi tavoli di lavoro sulle norme europee: «Per conto di Eurizon rappresento l’EBF, l’associazione delle banche europee, nel comitato direttivo di Ecolabel e nella Project Task Force in EFRAG (European Financial Reporting Advisory Group) intitolata dalla Commissione EU per stabilire standard di rendicontazione sostenibile  Sempre in Efrag, dove Eurizon partecipa al gruppo di lavoro sugli intangibili, stiamo cercando di trovare un filo rosso tra intangibili e reporting finanziario sostenibile».

Tempi troppo stretti e molti tasselli mancanti

Mancano pochi mesi per l’entrata in vigore di queste nuove norme e non sono ancora stati definiti tutti i dettagli. Mancano ad esempio i criteri tecnici per la tassonomia (gli stantard perché un’attività possa essere definita sostenibile) e anche per la rendicontazione da parte degli operatori finanziari. Quest’ultima entrerà in vigore il 10 marzo senza una griglia precisa su come rendicontare tutte le informazioni richieste.  

«Posso dire che forse per i gestori in generale è una buona notizia, perché lascia un po’ di respiro – commenta Gianluca Manca – Significa avere un certo lasso di tempo per adeguarsi alle nuove richieste della normativa Ue, senza avere rigide griglie da compilare fin da subito. In un primo tempo si potrà gestire la rendicontazione in modo più diciamo “sartoriale”. Cosa che, dal mio punto di vista, non comporterà un livello inferiore di informazioni». E per quanto riguarda le scadenze molto stringenti «non sono preoccupato – continua Gianluca Manca – perché credo che beneficeremo di un’iniziale flessibilità, per darci il tempo di attrezzarci, noi, le imprese e tutti i soggetti coinvolti».

Norme importanti per fare chiarezza

Troppi dati e troppo dettagliati, insomma, difficili e costosi da raccogliere per le imprese. Per poi rispondere a richieste talvolta in contrasto le une con le altre (seppur senza intenti contraddittori). Il tutto in tempi giudicati troppo stretti. Ma tutti sono d’accordo su un punto: una legge (o più di una) per fare chiarezza in ambito di finanza sostenibile era ed è necessaria e urgente. 

«È un passo importante, che darà la possibilità di uniformare il panorama dei fondi responsabili. Sarà molto rilevante anche per le politiche economiche», commenta Francesco Sandrini. «Come Amundi siamo pronti ad accogliere questa sfida – continua – Abbiamo sempre sostenuto che ognuno debba fare la sua parte, dalle istituzioni alla società, dalle aziende agli investitori. In questo momento vige una grande confusione attorno agli investimenti responsabili e c’è un enorme rischio green washing: la tendenza a far passare per investimenti sostenibili quelli che non lo sono affatto. In Europa esistono una ventina di ecolabel in ambito finanziario. Quasi tutte hanno creato propri criteri di sostenibilità, a volte tra loro coerenti, a volte con enormi incongruenze, che emergono soprattutto su tematiche di tipo energetico e sul delicato e conteso tema del nucleare. Questa armonizzazione della regolamentazione in ambito di finanzia sostenibile per noi è un passo importante, per creare un mercato omogeneo. Anche se nel breve periodo potrebbe creare delle difficoltà di implementazione, nel lungo periodo sarà più che positivo». 

 «Non si può continuare a lasciare in mano a pochi soggetti privati la responsabilità di dare i voti alla sostenibilità delle aziende – conferma Gianluca Manca – Da tempo insisto sui tavoli in cui sono coinvolto dell’importanza di avere un unico collettore europeo di dati in ambito ESG. Oggi un fondo pensione che voglia investire in modo responsabile deve scegliere il provider da cui attingere per le informazioni e, se vuole, anche per i voti alle aziende. Pur sapendo che, a seconda del provider, potrebbe trovare informazioni e voti diversi per la stessa azienda.  Diverso sarebbe avere informazioni univoche e scegliere poi il broker ESG per la parte di analisi e di valutazione, che naturalmente avrà criteri propri nell’assegnare rating ESG, come avviene per i rating finanziari puri.  Queste alzate di scudi contro i criteri tecnici sono fisiologiche. La normativa che l’Europa sta costruendo è la risposta al volere politico di dare più trasparenza sul dove vanno i soldi».

…nella grande confusione 

Una grande «confusione». Avevano usato questo termine alcuni ricercatori del Mit, il Massachusetts Institute of Technology, riferendosi ai voti alla sostenibilità delle imprese attribuiti dalle varie agenzie di rating ESG. Aveano usato questo termine in uno studio pubblicato nell’agosto del 2019, intitolato proprio “Aggregate Confusion: The Divergence of Esg Ratings”, ovvero “Confusione aggregata: la divergenza dei rating Esg”. Troppo spesso infatti le valutazioni sulla sostenibilità di una stessa azienda risultano diversi a seconda dell’agenzia che la analizza. E questo accade a tutti i livelli: infatti ogni agenzia di rating, ogni gestore finanziario, ogni fondo di investimento applica i suoi criteri e la sua metodologia nella valutazione della sostenibilità delle imprese.

Una confusione deleteria, come ormai sostengono tutti i protagonisti del mondo della finanza. «L’ambiguità attorno ai rating Esg – si legge nel paper del Mit – è un ostacolo a un processo decisionale prudente che contribuirebbe a un’economia sostenibile».

«La mancanza di chiarezza sulle metodologie alla base di tali meccanismi di punteggio e della loro diversità non consente agli investitori di confrontare efficacemente gli investimenti commercializzati come sostenibili, contribuendo al rischio greenwashing», aveva dichiarato nel suo discorso all’European financial forum, a metà febbraio scorso, Steven Maijoor, presidente dell’Autorità di vigilanza europea sui mercati finanziari (Esma). 

Poca chiarezza, ma anche poche informazioni per le banche centrali europee: «Le attuali regole per la rendicontazione non finanziaria da parte della imprese non garantiscono informazioni sufficienti, coerenti e comparabili», che servirebbero sia al settore privato (in particolare agli investitori), sia alle autorità pubbliche. Queste le parole scritte dal Sistema europeo di banche centrali (che raggruppa la Bce e le banche centrali nazionali) nella sua rispostaalla consultazione pubblica lanciata dalla Commissione europea sulla Renewed sustainable finance strategy e sulla revisione della direttiva sul reporting non finanziario. 

È in risposta a questa sete di chiarezza e di maggiori informazioni che si colloca l’intervento legislativo dell’Ue. Lo sanno anche i soggetti coinvolti, che forse hanno solo bisogno di un po’ di tempo per organizzarsi. E di un po’ più di chiarezza da parte del legislatore.