Riciclaggio: anche la Svizzera vuole vederci chiaro

La patria del segreto bancario all’attacco del riciclaggio. L’Europa è alla quinta direttiva in materia. Ma sui Panama Papers è stata poco trasparente

Matteo Cavallito
Panama City ripresa da Casco Viejo © Nico2panama/Wikimedia Commons
Matteo Cavallito
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La Svizzera lancia il suo giro di vite contro il riciclaggio. Un processo di riforma avviato all’inizio di questo mese con le prime consultazioni e che promette di rafforzare la legislazione imponendo nuovi standard di trasparenza. Ad ispirare l’operazione, per certi versi sorprendente, in quella che è pur sempre la patria del segreto bancario, le pressioni della Financial Action Task Force (FATF, il gruppo intergovernativo del G7) e dell’International Consortium of Investigative Journalists (ICIJ). Che nel 2016 si è fatto conoscere nel mondo con la nota inchiesta sui cosiddetti Panama Papers. «Il punto fondamentale è che il governo svizzero si è schierato con il FATF e i giornalisti evidenziando la necessità di chiudere la scappatoia legale», ha dichiarato il redattore del SonntagsZeitung e del Le Matin Dimanche, Oliver Zihlmann, in una nota diffusa da ICIJ. Un riferimento alle attuali debolezze della normativa elvetica.

Stretta sui complici dell’offshore

La riforma dovrebbe imporre a tutti i professionisti coinvolti nell’istituzione e nella gestione di trust e compagnie di accertare preventivamente se i loro clienti rappresentano un rischio sul fronte della corruzione e degli illeciti in genere. Un obbligo, quest’ultimo, non previsto dalla vecchia legge in materia. In un’audizione davanti al Parlamento europeo, ricorda ICIJ, lo stesso Zihlmann aveva sostenuto che il 90% dei legali svizzeri che avevano avuto a che fare con la “famigerata” Mossack Fonseca – la società legale da cui è partita l’inchiesta sui documenti panamensi – avesse approfittato delle carenze legislative per non riportare adeguate informazioni sulla propria clientela.

Ma c’è dell’altro. Le nuove proposte di legge ipotizzano l’istituzione di un registro delle associazioni «coinvolte nella raccolta o nella distribuzione di beni all’estero». E l’obbligo, per i professionisti del settore, di verificare la struttura proprietaria effettiva delle società offshore. L’obiettivo, in altre parole, è quello di svelare di volta in volta chi si celi realmente dietro al sistema di scatole societarie che compongono le opache reti di holding domiciliate nei paradisi fiscali. Il vecchio tema della beneficial ownership, per capirci.

Dalla UE qualche passo in avanti

Nel maggio del 2015 il Parlamento Europeo e il Consiglio dell’UE hanno approvato in via definitiva la IV Direttiva antiriciclaggio UE. Che ha previsto, tra le altre cose, l’istituzione dei registri centralizzati sull’effettiva proprietà delle società di capitali, fondazioni e trust registrati nei Paesi dell’Unione. L’Italia ha recepito le indicazioni europee con un decreto del MEF approvato a maggio 2017. I critici denunciano che limita però drasticamente la possibilità del “pubblico” di visionare le informazioni nei registri. Oltre alle authorities –  cui l’accesso è ovviamente garantito – la consultazione dei dati sulle società di capitali è consentita soltanto a chi dimostra di avere un legittimo interesse, definizione opinabile e, nel caso italiano, estremamente stringente. Nessun accesso al pubblico, invece, per le informazioni relative ai trust nazionali.

Ma la normativa sarà presto superata. Nel luglio del 2016 – proprio a seguito dell’eco dei Panama Papers – la UE ha avviato l’iter per l’approvazione della V Direttiva. Che – oltre ad allargare il campo di applicazione (si parla anche di bitcoin e valute virtuali) – dovrebbe implicare il libero accesso ai registri. Anche se limitatamente a società e fondazioni, per i trust invece permangono limitazioni. A dicembre 2017 l’Europarlamento il Consiglio dell’UE hanno raggiunto un accordo quadro sul testo della nuova direttiva. Votato dal Parlamento UE ad aprile e adottato dal Consiglio a metà maggio. Ora toccherà nuovamente ai singoli Paesi adeguare le normative nazionali.

«I governi europei complici del riciclaggio»

Il 18 ottobre dello scorso anno la Commissione di Inchiesta del Parlamento UE sui Panama Papers ha presentato la sua relazione finale. «Per oltre 20 anni – ha dichiarato l’eurodeputato tedesco e coordinatore dei Verdi per la stessa commissione, Sven Giegold – i governi europei sono stati complici del riciclaggio di denaro e dell’evasione fiscale».

Parole forti. Che si affiancano alle accuse rivolte a banche e società registrate in Lussemburgo, Regno Unito, Cipro e Malta. Responsabili, secondo gli inquirenti di aver fondato a Panama centinaia di compagnie fantasma utilizzate come perni delle triangolazioni finanziarie. E le denunce proseguono: inadeguato scambio di informazioni tra le authorities, legislazione carente, scarse risorse impegnate nella lotta al riciclaggio e, soprattutto, un clima ostile percepito nel corso dei lavori.

Molte aziende e diversi esponenti politici coinvolti nelle indagini, avevano spiegato gli eurodeputati, non hanno voluto testimoniare. Il Consiglio e gli Stati membri hanno tenuto nascosti i documenti e alla stessa commissione è stato chiesto di secretare i contenuti dei files riservati. Un precedente poco rassicurante.