La flat tax è un regalo ai ricchi e rischia di falcidiare la spesa pubblica

La flat tax gioverà soprattutto ai ricchi, rischia di diminuire il gettito fiscale complessivo e imporre tagli al welfare

Alessandro Volpi
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Alessandro Volpi
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Il decreto delega sulla riforma fiscale delineato dal governo Meloni contiene una riduzione del numero delle aliquote Irpef e la prospettiva di una flat tax “universale”. Si tratta di due scelte che genererebbero conseguenze non banali.

La flat tax è profondamente ingiusta da un punto di vista sociale

La prima riguarda la riduzione del gettito complessivo. La spesa pubblica italiana è ormai, strutturalmente, vicina ai 1.100 miliardi annui mentre le entrate tributarie arrivano a circa 500 miliardi. E sono composte in larghissima prevalenza da Irpef e Iva. Pensare ad una flat tax generalizzata comporterebbe un’erosione di gettito che, a seconda dell’aliquota prevista, ridurrebbe ulteriormente la copertura ordinaria della spesa pubblica. Obbligando a tagli pesanti, quasi per un quarto del totale, e al crescente ricorso ad un indebitamento pubblico sempre più costoso.

Ci sono poi elementi che rendono l’ipotesi della flat tax profondamente ingiusta in termini sociali. Si tratta infatti di una misura ad evidente vantaggio dei redditi medio alti. In Italia, le fasce medio basse della popolazione in termini di reddito già pagano un’aliquota Irpef inferiore al 23%. Si stima che quasi il 50% dei contribuenti italiani abbia un’aliquota più bassa, se si considerano deduzioni e detrazioni. Ridurre tutte le aliquote Irpef al 23%, o ad aliquote inferiori, anche per le fasce più alte di reddito significa fare loro un enorme favore. Difficilmente giustificabile e sostenibile, appunto, in termini di spesa sociale.

Occorre ampliare la base imponibile per garantire progressività

In realtà, il problema centrale del sistema fiscale italiano non si risolve con la riduzione delle aliquote dell’Irpef, che continua paradossalmente ad essere la pressoché unica imposta diretta, ma puntando invece seriamente ad ampliare la base imponibile.  Con l’attuale regime, infatti, il sistema fiscale italiano ha una base imponibile talmente ridotta da rendere la progressività, principio costituzionale, inapplicabile se non a danno dei redditi da lavoro e da pensione.

L’evoluzione storica delle imposte è molto chiara in tal senso. Nel corso del tempo dall’Irpef, che già non contemplava le rendite da capitale e da fabbricati, sono state escluse numerose fonti di reddito, così come è avvenuto per l’Irap che ha finito per gravare come l’Irpef, di fatto, sugli stessi soggetti, peraltro con aliquote ridotte. Considerazioni analoghe valgono per le addizionali comunali dell’Irpef.

Al di fuori dei redditi da lavoro e da pensione si sono moltiplicate le cedolari secche e le flat tax. E continua la pressoché totale esenzione fiscale per le piattaforme digitali, rispetto alle quali per ottenere un prelievo sarebbe indispensabile agire sui ricavi e non sui profitti. Nel contempo, i redditi da lavoro e da pensione sono penalizzati sul versante della spesa sociale. Ciò perché l’applicazione di una progressività distorta fa sì che paghino spesso per prestazioni che non ricevono. Mentre tutte le altre forme di reddito ricevono prestazioni che, in larghissima parte, non pagano.

Il 70% dell’Irpef è versata dal 40% dei contribuenti

In estrema sintesi, se non si cambia la base imponibile ampliandola e estendendola finalmente a tutti i redditi e non solo a quelli da lavoro, la progressività non si realizza e prosegue l’impoverimento della platea sociale che oggi regge, ingiustamente, la gran parte della spesa pubblica finanziata con le imposte.

Alcuni numeri rendono ancora più chiaro questo fenomeno. Il 70% dell’Irpef è versato dai contribuenti compresi nella fascia di reddito fra i 20 e i 100mila euro, che corrispondono al 40% del totale dei contribuenti. Significa che 182 dei 288 miliardi della spesa sociale totale provengono da questo 40% di contribuenti. Che, peraltro, tramite i consumi sono parte decisiva dei 272 miliardi di entrate Iva e dei 25 miliardi delle addizionali regionali e comunali. In altre parole, gran parte dello Stato sociale italiano si regge su una base imponibile assai limitata, i cui redditi ora sono sotto l’attacco dell’inflazione. Non è con la riduzione del numero delle aliquote, né con la flat tax e tantomeno riducendo la tassazione sulle rendite da capitale che si risolve la questione.

La flat tax per le partite Iva è la prova delle distorsioni

La flat tax al 15% per le partite Iva è la prova di simili distorsioni. L’evasione fiscale Irpef tra i lavoratori autonomi è stata del 68,7%; un’enormità rispetto all’evasione Irpef da lavoro dipendente e persino rispetto al 20% dell’Iva. Gran parte di quel 68,7% dipende, secondo la Relazione sull’evasione allegata alla Nadef 2022, da quanto non viene dichiarato per effetto della flat tax che induce a non far emergere le somme che porterebbero sopra la soglia di riferimento. Così sono sfuggiti al fisco quasi 28 miliardi di euro, cui si aggiungono 4,6 miliardi di euro sottratti all’Irpef sul lavoro dipendente che rimane in nero.

È evidente che sono i meccanismi di flat tax a generare evasione perché inducono a nascondere tutti i redditi che superano la soglia fissata. Peraltro dalla stessa relazione emerge il fallimento di un’altra tassa piatta, quella sugli affitti; il recupero di gettito indotto dalla tassa piatta vale 724 milioni di euro, ma senza cedolare – sostiene la Relazione – le entrate salirebbero a 1,4 miliardi di euro. La chimera delle flat tax è decisamente insidiosa e non è sostenibile se non con l’illusoria tesi che l’abbattimento del carico fiscale sia in grado di generare un aumento del reddito tale da garantire nuove entrate da destinare alla spese del Welfare. Con questo modello, in molte realtà in giro per il mondo, si è smantellato lo Stato sociale.