Dipendenza dal petrolio e debito in salita: il grande sonno dell’economia russa
La Russia non accenna a risolvere i suoi problemi atavici: a partire da una dipendenza dal greggio e di una macchina statale inefficiente
La Russia sta rallentando. L’ultima previsione, diffusa a fine giugno 2018, ha fatto registrare una modesta correzione al ribasso delle stime precedenti: nell’anno in corso, il Pil crescerà dell’1,9% contro il 2,1% ipotizzato nella rilevazione di aprile. Cambia poco, si dirà. E in effetti è così: i dati 2018, infatti, sono in linea con i ritmi sperimentati l’anno precedente quando il prodotto nazionale è cresciuto dell’1,7% e l’inflazione si è mantenuta al 4%, dato sostanzialmente confermato per l’anno in corso. Ma a restare invariate, in mancanza di vere rivoluzioni, sono anche le perplessità generali che da anni circondano l’economia del Paese.
Come ai tempi dell’URSS
«In assenza di riforme strutturali sostenere anche questo pur modesto trend di crescita per i prossimi sei anni sarà una vera sfida» scriveva l’opinionista di Bloomberg Leonid Bershidsky alla vigilia dell’ultima scontatissima rielezione di Vladimir Putin alla presidenza. I grandi cambiamenti, apparentemente necessari ma di cui ancora non si parla abbastanza, riguardano la struttura stessa dell’economia russa. L’analista Simeon Djankov, del Peterson Institute for International Economics, ha sottolineato come l’ondata di rinazionalizzazioni dell’ultimo decennio abbia contribuito all’espansione del grande apparato: lo Stato – ha spiegato, ripreso da Bloomberg – controllerebbe in pratica il 55% dell’economia nazionale mentre i dipendenti pubblici sarebbero circa 20 milioni. Il problema però è dato dalla diffusa inefficienza delle compagnie statali, un retaggio, forse, dell’era sovietica.
Nel 2014 – sostiene un’analisi dei ricercatori della Russian Presidential Academy of National Economy and Public Administration (RANEPA) Alexander Abramov, Alexander Radygin e Maria Chernova, pubblicata nel marzo 2017 sul Russian Journal of Economics – i lavoratori delle aziende private russe generavano mediamente un ricavo pro capite di 12,5 milioni di rubli; quelli delle società pubbliche non andavano oltre i 4,6.
La Russia ha una dipendenza dal petrolio
E poi c’è il fossile, onnipresente e particolarmente ingombrante. Secondo Vladimir Osakovsky, capo economista della divisione Russia di Bank of America Merrill Lynch, gas e petrolio garantiscono da sole il 60% dei ricavi sulle esportazioni e circa la metà della base imponibile dello Stato.
Domanda obbligata: cosa accadrebbe se il settore fossile, già soggetto a una storica volatilità di prezzo, andasse in crisi sotto la spinta delle politiche ambientali globali, delle ondate crescenti di disinvestimenti etici e di una sempre più rapida espansione delle rinnovabili? È un interrogativo che affligge tutti i produttori del Golfo che non a caso cercano da tempo di diversificare. E basta guardare al nesso tra il prezzo del barile e l’andamento dell’economia per capire quanto Mosca abbia bisogno di allinearsi al più presto agli esportatori più lungimiranti, a partire dall’Arabia Saudita con la sua ambiziosa Vision 2030.
Qualcuno, per altro, sembra già consapevole del problema: due anni fa, ricorda Bloomberg, la governatrice della Bank of Russia, El’vira Nabiullina, aveva sottolineato pubblicamente la necessità di una riforma dell’economia capace di ridurre l’incidenza della principale materia prima del Paese. In caso contrario, avvertiva, «nemmeno un barile a quota 100 dollari potrebbe garantire una crescita del Pil a medio termine superiore all’1,5-2%».
Allarme debito
L’altro spettro è costituito dal debito. Secondo i dati della World Bank, il credito al settore privato equivale oggi a quasi il 55% del Pil, contro il 42 scarso di quattro anni prima. Nei primi 5 mesi del 2017, inoltre, le compagnie russe hanno collocato obbligazioni in valuta estera per 12,9 miliardi di dollari, pareggiando in meno di un semestre l’intero ammontare emesso nel 2016.
E i privati cittadini? Alla festa, a quanto pare, partecipano anche loro. Ancora Bershidsky: «buona parte dei meriti della ripresa economica è da ascrivere ai consumatori che si stanno indebitando sempre di più per acquisire immobili e comprare prodotti di importazione». Poco più di un anno fa, prosegue, i crediti al consumo avevano un tasso di sofferenza del 20%, come a dire che un quinto dei prestiti erogati rischiava seriamente di non essere restituito. Gli istituti avevano dato l’impressione di voler tirare il freno a mano, ma dopo il maxi taglio dei tassi realizzato nel 2017-18 dall’istituto centrale – il costo del denaro è passato dal 10 al 7,25% – «le banche non hanno saputo resistere alla tentazione di offrire maggiori finanziamenti ai privati». Un atteggiamento rischioso per un’economia sbilanciata sul fossile e tuttora condizionata da una crescita modesta. Ma questo, in definitiva, pare superfluo aggiungerlo.