Lo sport in Arabia Saudita e lo sportwashing in Occidente
Le braccia finanziarie saudite si allungano sempre più sullo sport occidentale. Ma chi è che fa davvero sportwashing?
Prima si sono presi il Newcastle, portandolo in Champions League e trasformandolo in un club che dominerà per i prossimi anni, come il Psg qatariota e il Manchester City di Abu Dhabi. Poi hanno portato la stella Cristiano Ronaldo a svernare nel loro campionato. E saltato all’ultimo momento il campione del mondo Messi, per non rovinare i rapporti appena rimessi in sesto con il vicino Qatar, quest’estate hanno aggiunto gli ex campioni del mondo Kanté e Benzema, pallone d’oro in carica. Altri ne arriveranno.
Fuori dal pallone, invece, già ospitano eventi sportivi come la boxe e la Formula Uno. E lo stesso giorno dell’annuncio di Benzema è arrivata la notizia che il lungo feudo tra i due maggiori circuiti di golf, l’americano PGA e il locale LIV, si è concluso con l’acquisizione dell’ultimo sul primo. Operazione gigantesca, conclusa grazie ai soldi del progetto Vision 2030 sovvenzionato dal fondo sovrano PIF: un patrimonio di 600 miliardi di dollari nelle mani del principe erede Mohammed bin Salman.
Il soggetto è ovviamente l’Arabia Saudita, il cui nome ogni volta che appare scatena enormi pruriti occidentali. Tanto che a certo punto della battaglia per il golf tra LIV e PGA il circuito saudita ha accusato quello americano di utilizzare le associazioni dei parenti delle vittime dell’11 settembre per fare campagne negative. E il fatto che Trump nella battaglia abbia appoggiato LIV non ha fatto altro che aumentare lo sdegno del mondo libero. Ecco allora sui media occidentali montare le accuse di sportwashing: utilizzare lo sport per ripulirsi l’immagine. E farlo con le mani ancora insanguinate, ricordando il terribile omicidio del giornalista Khashoggi.
Tutto vero, ci mancherebbe altro. Verrebbe solo da chiedersi con quale superiorità morale la fortezza europea che permette le stragi di migranti nel Mediterraneo (come quelle recenti di Cutro e nel Peloponneso) si senta in diritto di giudicare il sangue sulle mani degli altri. E con quale bagaglio etico giornalisti che nulla hanno da dire sul capitalismo estrattivo del primo mondo – che per rendere l’occidente alfiere del mondo libero devasta intere zone del Pianeta dove produce fame, miseria, morte e malattie – decidano poi di scagliarsi contro le economie emergenti. Da cui lo stesso Occidente dipende.
Ma, soprattutto, basterebbe informare con la stessa furia e il medesimo sdegno che il fondo saudita PIF negli anni ha comprato le azioni più importanti (ci sono partecipazioni che pesano come ferro e altre come piume) in molte aziende occidentali. Tra cui Amazon, Uber, Alphabet (il mondo Google), Meta (il mondo Facebook e Instagram), Microsoft, Boeing, Disney. E la stessa Bank of America. I social network, le merci a casa nostra con un click, i trasporti, i giornali, i computer e le serie tv. Oltre ad avere ridisegnato lo skyline delle principali città europee. Tutto quello che ci fa sentire liberi e migliori di loro insomma.
Se il meraviglioso mondo libero è ben contento di tacere quando arrivano soldi sauditi nelle casse delle sue multinazionali, ma si scatena come una furia non appena si parla di sport – sembra quasi vederli urlare «prendetevi tutto ma non il nostro sport», per parafrasare una nota pubblicità – ecco che bisognerebbe ribaltare completamente il senso della parola sportwashing. Lo sportwashing non lo sta facendo l’Arabia Saudita per ripulirsi l’immagine e la coscienza nei confronti dell’occidente, come piace pensare a chi è ancora intriso di pensiero coloniale. Lo sportwashing lo sta facendo l’Occidente nei confronti dei sauditi, quando guarda sdegnato alla pagliuzza sportiva per nascondere la trave finanziaria.