Pesca e sostenibilità: cosa cambia con il nuovo accordo sui sussidi
Il Wto vara un accordo storico per fermare i sussidi alla pesca dannosi. Un primo passo, ma la strada verso la sostenibilità è lunga
Da quando aveva tredici anni, ogni mattina Moussa Tew si alza, prepara la piroga e prende il largo. Siamo a Nouadhibou, in Mauritania: un tempo bastava gettare la rete per poche ore e il pesce arrivava. Oggi le reti restano vuote, mentre le ore scorrono. Le flotte industriali hanno svuotato il mare, costringendo i pescatori artigianali ad allungare le uscite e a spingersi sempre più lontano, con costi e rischi crescenti: «Consumiamo molto carburante e guadagniamo sempre meno».
La scarsità di pesce colpisce l’intera comunità. Mohamed Fadel Ould Soueile, presidente della federazione locale dei pescatori artigianali, riassume la loro preoccupazione: «La nostra risorsa più importante è il mare. Se non ci saranno più pesci, per noi sarà un disastro».
Una crescita (insostenibile) spinta dai sussidi
Il problema non è semplicemente la scarsità di pesce. O meglio: il pesce manca, ma non per tutti. Negli ultimi decenni, la pesca si è trasformata con l’arrivo di navi più grandi, reti più performanti e tecnologie avanzate. Una crescita resa possibile non solo dall’innovazione, ma anche da politiche di sussidio che hanno gonfiato artificialmente la capacità di pesca.
Secondo l’Ocse, la flotta mondiale ha oggi una capacità più che doppia rispetto a quella sostenibile. In altre parole, ogni giorno peschiamo dal mare più di quanto gli oceani riescano a rigenerare. Ne deriva un paradosso: più barche in mare, meno pescato, e un settore che dipende sempre più da fondi pubblici. Da decenni, i sussidi hanno favorito la pesca intensiva, accelerando il degrado degli ecosistemi e mettendo in crisi i piccoli pescatori, che invece si sostengono quasi solo con i propri mezzi.
Dopo circa vent’anni di trattative, l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) ha approvato un accordo che punta a ridurre questi sussidi nocivi. L’Agreement on Fisheries Subsidies, entrato in vigore il 15 settembre scorso, vieta alcune delle forme più impattanti di sostegno pubblico, con l’obiettivo di tutelare le popolazioni ittiche e gli ecosistemi marini.
Secondo la Fao, più di un terzo degli stock ittici globali è già sovrasfruttato. I sussidi che alimentano la pesca intensiva e, in alcuni casi, attività predatorie e illegali, contribuiscono in modo diretto a questa situazione. Per capire l’entità del fenomeno: ogni anno, più di 22 miliardi di dollari vengono destinati a carburante, costruzione di imbarcazioni, infrastrutture e attrezzature per le grandi flotte, spesso attive in acque internazionali o poco monitorate.
Cosa si intende per sussidi dannosi nella pesca e cosa prevede il nuovo accordo
Quelli che vengono definiti “sussidi dannosi” sono forme di sostegno economico pubblico che distorcono il commercio e minacciano la sostenibilità ambientale. Si tratta di interventi che rendono la pesca più redditizia di quanto non sarebbe senza l’intervento statale. Per esempio, i contributi al carburante possono coprire fino al 30–50% dei costi operativi, permettendo alle grandi flotte industriali di spingersi in zone dove l’attività non sarebbe più sostenibile dal punto di vista economico. Si tratta di agevolazioni che continuano a esserci anche nei casi in cui determinati stock di pesce siano in declino.
È proprio su questo nodo che interviene il nuovo accordo: vieta i sussidi alla pesca illegale, non dichiarata e non regolamentata; quelli destinati alle flotte che sfruttano stock già sovrapescati; e quelli che riguardano attività in acque internazionali, dove il controllo è più difficile. Si tratta di pratiche che hanno trasformato la pesca in un’industria globale ad alto impatto e che, senza questi sostegni economici, non riuscirebbe a sopravvivere.
L’accordo non basta: i prossimi passi per una transizione giusta
L’accordo del Wto rappresenta un primo passo importante, ma non risolve tutti i problemi. Molti sussidi che contribuiscono all’overcapacity – cioè all’eccesso di capacità di pesca – restano fuori dal divieto. Un secondo ciclo di negoziati è già in corso per ampliare l’ambito dell’accordo. È la cosiddetta “second wave” che dovrebbe, almeno secondo le intenzioni, includere nell’intesa anche i sussidi all’overcapacity e all’overfishing, che sono al centro del dibattito attuale.
Come spesso accade, molto dipenderà dalla volontà politica dei singoli Paesi. L’accordo introduce obblighi di trasparenza e monitoraggio, ma non prevede sanzioni automatiche: il rischio è che gli impegni restino sulla carta. Le organizzazioni ambientaliste chiedono ai governi di intervenire anche a livello nazionale, riformando i propri sistemi di aiuti e trasformandoli in incentivi positivi: premi per la pesca sostenibile, sostegno alle comunità costiere, investimenti nel ripopolamento degli stock.
Qualsiasi transizione del settore deve tenere conto della dimensione sociale. In molti Paesi in via di sviluppo, la pesca è ancora una fonte essenziale di cibo, lavoro e reddito. Eliminare i sussidi senza alternative rischierebbe di mettere in crisi intere comunità. Per questo l’accordo prevede un meccanismo di assistenza tecnica e finanziaria per supportare i Paesi più poveri nell’adattamento. Ma la strada resta in salita.




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