Tribunali e sequestri: così l’Italia mette in crisi i cannabis shop
La sentenza della Cassazione non chiarisce, ma il clima proibizionista si fa sentire. I negozi di cannabis chiudono. E l’Italia perde la sua occasione
Il mercato italiano della cannabis è nel caos. E non potrebbe essere diversamente. Il 30 maggio scorso, con un intervento molto discusso, la Corte di Cassazione ha disposto il divieto di vendita dei derivati della canapa light «salvo che tali prodotti siano in concreto privi di efficacia drogante». Una definizione incerta, ancora tutta da chiarire.
La Federazione Italiana Tabaccai, nel frattempo, ha scelto la via della cautela consigliando ai suoi aderenti di sospendere le vendite. Interpellata da Valori, l’associazione non ha voluto rilasciare ulteriori dichiarazioni. Di diverso avviso Federcanapa: la sentenza della Cassazione, ha precisato in una nota «non determina a nostro parere la chiusura generalizzata dei negozi». Parrebbe così in effetti, almeno sulla carta. Ma a quali condizioni?
Gli esercenti: «Così non si può più andare avanti»
In attesa di capirlo c’è già chi ha gettato la spugna. A.T., iniziali di fantasia, è un esercente del Nord Italia. La saracinesca del suo negozio resta giù. E una volta rialzata, dice, niente sarà come prima. «Da questo autunno inizierò un’attività commerciale completamente diversa» spiega. «Con la canapa, a queste condizioni, non si può più andare avanti». Attorno a lui annuiscono tutti e noi prendiamo nota. Il campione non sarà statisticamente rappresentativo, ma l’identità di vedute vorrà pur dire qualcosa. C’è chi vende al dettaglio, chi rifornisce e, ovviamente, chi consuma. Coltivatori a parte, insomma, le persone che incontriamo rappresentano l’intera filiera.
Il rivenditore, se non altro, è caduto in piedi: «Perderò parte dell’investimento – spiega – ma almeno non ho debiti». Non tutti però possono dirsi altrettanto fortunati. «C’è gente che si è indebitata e ora non può chiudere», spiega un altro operatore. «L’attività prosegue, ma è una trappola: ora c’è paura». Ed è proprio questo il peggiore dei paradossi.
Il mercato non ha tempo da perdere
Se interroghi chi opera nel comparto ottieni sempre la stessa risposta: la Cassazione, in fondo, ha confermato quanto stabilito dalla legge 242 del 2016. Quella che ha aperto la strada, di fatto, al commercio di cannabis light – la canapa contenente CBD e poco THC (massimo 0,5% stante un peso totale non superiore ai 12 mg) – dando nuova vita, tra l’altro, a una coltura tradizionale che le norme restrittive avevano costretto a un lungo coma profondo. Il vero problema, dicono tutti, è stata la reazione mediatica.
«Prima la crociata di Salvini. Poi i titoli dei giornali che sembravano dire “Vietata la vendita”. Ma quando mai? A quel punto il panico era inevitabile». Le perquisizioni, dicono, sono scattate a macchia di leopardo: in alcune città è stata una vera e propria ondata di raid. Altrove, invece, calma piatta. Segno che le interpretazioni dei prefetti sono state variabili. In linea con una legge poco chiara.
Si attendono delucidazioni. Ma il mercato, si sa, non ha tempo da perdere. «Noi chiudiamo» spiega un fornitore. «Dopo la sentenza», racconta, «c’è stato un crollo della domanda. Prima o poi si arriverà a un chiarimento, ma quanto tempo ci vorrà? Di certo non posso permettermi di stare fermo due anni».
Sulla cannabis è caos normativo
A luglio la Cassazione ha pubblicato le motivazioni della sentenza. La sensazione è quella del giro di vite, ma i giudici, al tempo stesso, non hanno indicato alcuna soglia discriminante per il principio attivo preferendo parlare, più genericamente, di «idoneità della medesima sostanza a produrre in concreto un effetto drogante». Dunque? Dunque nulla, nessun chiarimento definitivo. E allora si ricomincia.
«La sentenza della Cassazione non chiarisce i termini del problema e nella sua parte motivazionale finisce per creare ancora più confusione» spiega Carlo Alberto Zaina, avvocato riminese, da tempo specializzato nella legislazione che riguarda la cannabis. «L’interpretazione resta quella generale: si possono commercializzare canapa e derivati purché privi di effetto drogante. Solo che non si forniscono dati precisi, non si danno indicazioni chiare. E si delega ai giudici l’onere di stabilire se vi sia un reato caso per caso».
Allarme sequestri
Tra gli assistiti di Zaina figura anche un commerciante milanese che all’inizio di luglio è stato assolto in tribunale dall’accusa di spaccio di droga. Determinante, nell’occasione, la perizia tossicologica sulla cannabis sequestrata che ne ha certificato il limitato contenuto di THC, inferiore allo 0,5%. Proprio il limite dello zerocinque, sostiene Zaina, «resta il principale parametro valutativo» per i giudici chiamati a verificare la famosa “capacità drogante”. Oltre all’indicazione, aggiunge, «dell’effettivo peso del principio attivo presente, espresso in milligrammi, che deve essere contenuto entro i 10 mg». Ma la vita dei commercianti, allo stato attuale della legge, continua ad essere potenzialmente durissima.
«La Cassazione non si è interessata alle regole di ingaggio delle operazioni di polizia», spiega ancora Zaina. «Il risultato è che potranno ancora esserci sequestri tout court della merce in vendita, nonostante gli inquirenti, come ha stabilito una recente sentenza del Tribunale di Genova, siano in realtà autorizzati a prendere soltanto dei campioni». Resta evidente, insomma, il rischio di trovarsi con il negozio svuotato dai sequestri. Senza contare lo stress prodotto da un’accusa di spaccio probabilmente immotivata. Ad oggi, riferisce Zaina, non si conoscono casi di negozianti condannati in tal senso.
Sballo? No, relax
«Per fare una legge efficace basterebbe stabilire pochi punti chiari», dichiara ancora Zaina. «Ma in Italia, dove gli stesi antiproibizionisti sono divisi tra loro, manca evidentemente la volontà. Oltre che la cultura». E allora, verrebbe da aggiungere, si potrebbe iniziare col superare il primo pregiudizio, che vuole i consumatori inguaribili aficionados dello sballo (capirai!). La verità, pare di capire, è che dietro al successo dei canapa shop ci sarebbe al contrario la domanda di una clientela più matura e consapevole, interessata a un prodotto depotenziato, rilassante, ma nulla più. E di certo non stordente. Gli operatori lo ripetono da tempo. E non sono i soli a pensarla in questo modo.
«Molti consumatori italiani preferiscono già la cannabis light a quella tradizionale e se la normativa fosse più chiara il mercato avrebbe sicuramente maggiore successo», sostiene Piero David, ricercatore di economia applicata presso l’IBAM CNR. «Oggi invece i rivenditori vivono in costante tensione per via dei controlli periodici accompagnati da una normativa incerta. Ma il vero problema ce l’hanno i produttori: per quanto si stia attenti, infatti, non è facile coltivare la canapa tenendo sempre sotto controllo la percentuale di THC di ogni singola pianta».
Un’occasione persa
Secondo uno studio a cura di Vincenzo Carrieri (Università della Magna Grecia), Leonardo Madio (Université Catholique de Louvain) e Francesco Principe (Erasmus School of Economics di Rotterdam), realizzato nel giugno 2018, la cannabis light italiana avrebbe sottratto alla criminalità organizzata fino a 200 milioni di euro all’anno. Un primo risultato tangibile dell’espansione di un comparto che all’inizio del 2019, sostiene l’AICAL, l’Associazione Italiana Cannabis Light, contava non meno di 2.000 negozi. Ora però tutto questo rischia di finire nel peggiore dei modi.
Da Milano, epicentro del commercio, al resto della Penisola si susseguono le chiusure. Anche se i dati sull’impatto dei sequestri e delle scelte cautelative degli stessi esercenti non sono ancora disponibili. Il clima proibizionista rischia di spingere definitivamente l’Italia in una direzione ostinata e contraria rispetto a un trend globale caratterizzato da una forte espansione, con ricadute positive per gli investimenti, l’occupazione e le entrate fiscali. «Una cosa è certa», commenta l’ormai ex negoziante: «Stiamo perdendo un’occasione enorme». Annuiscono tutti. Ancora una volta.