Come Unicredit e Intesa Sanpaolo partecipano alla distruzione della regione artica e della foresta amazzonica

Secondo il rapporto Banking on Climate Chaos, Unicredit è la banca che più ha investito nelle trivellazioni artiche nel 2023

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Inverni caldi, estati aride, ma anche uragani, tsunami, alluvioni. Quando un evento climatico estremo ci colpisce in prima persona, lasciando dietro di sé una scia di morte e distruzione, non è mai un caso. Le origini sono da ricercare nei cambiamenti climatici prodotti dall’uomo. Ma questi mutamenti non devono essere intesi come una cosa lontana, o troppo grande per noi. Sono un qualcosa a cui noi contribuiamo quotidianamente. Lo facciamo, per esempio, quando apriamo un conto in banca. O chiediamo alla nostra banca di fare degli investimenti per noi.

Perché, come spiega l’ultima edizione del rapporto Banking on Climate Chaos, ogni anno centinaia di miliardi di dollari escono dagli istituti di credito e arrivano alle aziende produttrici di combustibili fossili. Questi sono gli investimenti che fanno le banche, sotto forma di prestiti, obbligazioni e sottoscrizione di emissioni azionarie. Investimenti nelle multinazionali del fossile. Le quali sono in continua espansione, e sono in prima linea nella devastazione di due tra i più importanti ecosistemi del pianeta: la regione artica e la foresta amazzonica.

Il ruolo delle banche italiane nella distruzione di ecosistemi delicati e preziosi

Ma non è finita qui. La devastazione di questi delicatissimi ecosistemi per estrarre, raffinare e trasportare carbone, gas e petrolio non si limita a produrre i fenomeni climatici estremi che oramai sperimentiamo sulla nostra pelle. Ha un impatto rovinoso anche sulla vita delle popolazioni indigene che questi luoghi abitano. E a sua volta questo impatto produce disuguaglianze di classe, etnia e genere, causa del nuovo «razzismo ambientale».

Ecco gli effetti del nostro aprire un conto in banca, o del fare dei semplici investimenti. E diciamo nostro perché l’Italia, purtroppo, è in prima linea. Se Eni è il braccio armato del capitalismo estrattivo, il cane a sei zampe e i suoi fratelli sono sovvenzionati dalle banche. E anche qui a fare la voce grossa, tra le centinaia di istituti di credito presi in esame dal rapporto di Banking on Climate Chaos, troviamo le nostre banche più importanti. In prima fila spiccano infatti i nomi di Unicredit e Intesa Sanpaolo.

Unicredit e Intesa Sanpaolo puntano su petrolio e gas artico

In generale i finanziamenti delle banche per la ricerca, l’estrazione e il trasporto di petrolio e gas nella regione artica sono diminuiti nel 2023. Ma alcune società hanno trovato nuovi giacimenti, hanno aumentato la loro presenza e si sono impegnati nuovamente nelle trivellazioni, soprattutto in Norvegia. Tra le più importanti aziende che hanno ricevuto finanziamenti nel 2023 per trivellare l’Artico, insieme a Aker BP, ecco spuntare Vår Energi, ovvero la ex Eni Norge, società controllata dalla nostra Eni. «Siamo certi che il potenziale di crescita e generazione di valore nel Mare di Barents sia significativo», ha dichiarato Torger Rød, Ceo di Vår Energi.

Negli ultimi otto anni (2016-2023), tra le banche che più hanno investito nelle società fossili attive nella regione artica troviamo JP Morgan con 3,6 miliardi di dollari, Citigroup con 3,5 miliardi, Crédit Agricole con 3,3 miliardi e poi la “nostra” Unicredit con 2,8 miliardi. Se però ci limitiamo solo agli investimenti nel 2023, Unicredit balza in testa a questa poco nobile classifica con 265 milioni di dollari, seguita da Citigroup con 246 milioni e poi al terzo posto dall’altra italiana, Intesa Sanpaolo, con 210 milioni. Un bel primato, non c’è che dire.

Le banche italiane che finanziano le trivelle nel bioma amazzonico

Anche qui, dopo le “solite” JP Morgan, Citigroup, Bank of America e Deutsche Bank, arrivano i nostri.  Unicredit e Intesa Sanpaolo appaiono infatti nella parte alta della classifica anche negli investimenti nelle multinazionali responsabili della devastazione del bioma della foresta amazzonica. Unicredit ha investito quasi 2 milioni di dollari nel solo 2023. E 60 milioni negli ultimi otto anni. Intesa Sanpaolo anche lei 60 milioni negli ultimi otto anni. Ma non ci sono dati reperibili per il 2023. E questo è facilmente spiegabile.

Il bioma di cui sopra è una «porzione di biosfera individuata e classificata in base al tipo di vegetazione dominante o alla fauna prevalente». Bisognerebbe dunque considerare come bioma amazzonico quella porzione di territorio che copre buone parti di Brasile, Ecuador, Perù e Colombia, come stabilito dalla Amazonian Georeferenced Socio-Environmental Information Network (Raisg). Il problema è che diversi istituti di credito e finanziari, come BNP Paribas, HSBC, Société Générale, Standard Chartered e appunto la nostra Intesa Sanpaolo, a parole dichiarano di avere limitato o sospeso i finanziamenti alle società attive nell’estrazione di petrolio e gas in Amazzonia. Ma basandosi su una definizione del bioma amazzonico è molto più limitata rispetto a quella della Raisg. Così, sono molto più ristretti i confini del territorio in cui non fanno investimenti estrattivi.