Vaccino anti-Covid: un business miliardario nelle tasche di Big Pharma
250 miliardi di dollari in 5 anni. Il mercato dei vaccini per il Covid-19. Ma c'è anche la diagnostica e le cure a base di anticorpi monoclonali
A fine dicembre del 2019, quando tutti si preparavano a festeggiare il capodanno (naturalmente “in presenza”), i titoli di BioNTech valevano circa 30 euro. Mentre stiamo scrivendo sono scambiati intorno ai 90 euro. Chi, quel giorno, avesse investito 10.000 euro nella società tedesca di biotecnologia, che sta dietro al primo vaccino anti-Covid, ora ne avrebbe in tasca 30.000, con un rendimento del 200%.
Chi prima arriva… BioNTech-Pfizer si divideranno la maggior parte dei profitti del vaccino
«Tra i produttori di vaccini sarà proprio il duo BioNTech-Pfizer a beneficiare di più dalla pandemia. Perché sono stati i primi e perché il loro vaccino garantisce il 95% di protezione», spiega a Valori.it Zhiqiang Shu, Senior Biotechnology Analyst della società di investimenti Berenberg Capital Markets.
Pfizer e Biontech si suddivideranno i profitti al 50%. Nel corso del 2021 produrranno due miliardi di dosi e il prezzo per dose sarà intorno ai 20 dollari. Considerando che non tutte le dosi saranno vendute nel 2021 e che alcune saranno commercializzate a prezzi più bassi, i produttori stimano ricavi più contenuti dei 40 miliardi di dollari che risulterebbero moltiplicando il prezzo per le dosi prodotte. BioNTech, che venderà il vaccino quasi esclusivamente in Germania e in Turchia, prevede ricavi pari a 3-5 miliardi di dollari. Mentre Pfizer, che coprirà soprattutto il mercato statunitense e europeo, stima vendite pari a 15 miliardi di dollari entro la fine dell’anno. «Pfizer aumenterà i suoi ricavi di circa il 35% nel 2021. Il vaccino anti Covid-19, da solo, farà il 20-30% del totale», continua Shu. «Per Biontech il vaccino peserà invece per il 100% dei ricavi, perché la società non commercializza altri prodotti».
Vaccino: un mercato da 250 miliardi di dollari in 5 anni
Berenberg stima che, a livello globale, il mercato dei vaccini, includendo anche le vendite di Astrazeneca, Moderna, Johnson & Johnson, Novavax e gli altri che si aggiungeranno nei prossimi mesi, potrebbe valere circa 90 miliardi di dollari nel 2021. E 250 miliardi di dollari nel periodo 2021-2025. «Le mutazioni sono sicuramente un’opportunità per i produttori perché permetteranno di vendere i vaccini nel lungo periodo, adattandoli a varianti sempre nuove», spiega Zhiquang Shu. «È un’opportunità di lungo termine perché ogni anno sarà necessario un richiamo».
Non per tutti
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La profittabilità di ogni dose venduta è stimata a livelli molto elevati. «È assolutamente realistico pensare a un EBITDA margin del 60% (utili dalla vendita in percentuale dei ricavi, ndr)», aggiunge l’analista di Berenberg. «Probabilmente per i produttori di vaccini m-RNA, come Biontech-Pfizer (o Moderna, ndr), sarà anche più alto. Nel 2021 potrebbe attestarsi a livelli vicini al 50%, perché ci sono molti costi fissi che peseranno quasi solamente sul primo anno di produzione. Ma negli anni successivi il margine salirà progressivamente». Margini così alti sono possibili soprattutto perché non ci sono costi di marketing. Non si devono pagare informatori o commerciali perché le dosi, in pratica, si vendono da sole. E se i vaccini Covid-19 hanno un prezzo a dose relativamente basso, i volumi di vendita sono altissimi e quindi i ricavi totali sono molto elevati.
Profitti astronomici con i test
La pandemia non aiuterà solamente i conti dei produttori di vaccini, che sono rappresentati da un numero molto limitato di soggetti all’interno del settore farmaceutico. A guadagnare, e non poco, saranno anche le società che fanno diagnostica, come Roche, bioMerieux, Abbott, Danaher, o l’italiana Diasorin, impegnate nella produzione dei vari tipi di test per individuare il virus Covid-19 o i suoi anticorpi. «Attualmente queste società hanno valutazioni “drogatissime” perché la capacità manufatturiera è limitata, ma c’è un eccesso di domanda». Ha spiegato a Valori.it un analista finanziario italiano specializzato nel settore farmaceutico, che ha chiesto di non essere citato. Chi si occupa principalmente di diagnostica non ha particolari problemi con le mutazioni. I test le mappano agevolmente, perché interessano solo una piccola sezione di RNA, facilmente riconoscibile. Quindi le compagnie non devono investire in modo significativo per tracciare le varianti.
«Nei prossimi anni i test non ci serviranno tanto per capire se una persona è positiva o meno al Covid-19, ma se ha ancora abbastanza anticorpi o deve essere vaccinata di nuovo», continua l’analista. «Quindi si faranno molti più test sierologici e questo farà salire ancora di più gli utili e le valutazioni delle società che fanno diagnostica, almeno per i prossimi 4-5 anni».
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Il business delle cure: gli anticorpi monoclonali
E, infine, c’è il grande tema delle cure e quindi dei cosiddetti “anticorpi monoclonali”, che saranno presto iniettati nei pazienti malati per rendere blando il decorso della malattia, liberando così posti nei reparti di terapia intensiva. Attualmente in fase di sperimentazione, questi farmaci potrebbero essere utilizzati già a partire da giugno di quest’anno. «Si tratta di una cura, non di un vaccino. Gli anticorpi inoculati, già sperimentati con successo per la cura di alcune tipologie di tumore, hanno un’efficacia di brevissimo termine. Una settimana al massimo», spiega l’analista italiano.
Ne ha beneficiato, in via sperimentale, anche l’allora presidente degli Stati Uniti Donald Trump, quando si è ammalato di Covid-19 a fine 2020, in piena campagna elettorale. A Trump è stato inoculato un cocktail di anticorpi monoclonali dell’impresa statunitense Regeneron. Che, a quanto pare, ha funzionato. Altre compagnie stanno lavorando su prodotti simili con prezzi più accessibili rispetto al cocktail Regeneron, considerato molto caro. In prima fila ci sono GSK (GlaxoSmithKline), Sanofi, Astrazeneca e l’americana Eli-Lilly. «Per quanto ci si impegni a comprimere i prezzi, questi farmaci rimarranno cari e porteranno a guadagni elevati per i produttori, con un EBITDA margin di almeno 50%», precisa l’analista.
Non tutte le aziende farmaceutiche beneficiano dal Covid-19
Mentre la pandemia ha portato e porterà piogge di utili su una serie di compagnie farmaceutiche, molte altre hanno sofferto e continueranno a soffrire. Come, ad esempio, l’italiana Recordati, che non è “esposta” al Covid-19 e quindi non ne sta beneficiando. «Il fatto che ci sia meno accesso alle strutture ospedaliere a causa della pandemia ha fatto diminuire la richiesta di farmaci negli ospedali e, per lunghi periodi, ha in pratica fermato la diagnostica», spiega l’analista italiano del settore farmaceutico. «Inoltre, con un grande numero di persone a casa e l’uso generalizzato delle mascherine, è stata meno diffusa l’influenza stagionale che, in tempi normali, è un’importante fonte di reddito per la società».
Recordati si sta però orientando sempre di più alla produzione di “orphan drugs”, farmaci “orfani”, per il trattamento di malattie rare. Con un tasso di profittabilità (EBITDA margin) del 50%, sono uno dei nuovi temi di investimento per i big del settore farmaceutico, al di là della pandemia. La stessa Astrazeneca, nel dicembre del 2020, ha completato quella che forse si potrebbe definire la più grande operazione della sua storia: l’acquisizione del produttore di “orphan drugs” Alexion, per 39 miliardi di dollari. Nel settore farmaceutico c’è grande fermento. Con o senza pandemia.