Yunus, il «banchiere dei poveri» che piace soprattutto all’Occidente
Il Premio Nobel parla ad Assisi: il padre del microcredito è rispettato negli USA e in Europa. Ma dietro di lui si celano ombre e critiche
La città del santo accoglie Muhammad Yunus. È lui, padre della microfinanza e fondatore della Grameen Bank, l’indiscussa superstar internazionale dell’evento Percorsi Assisi, la prima scuola di formazione economica interuniversitaria in programma fino all’8 settembre. Una lectio magistralis su “Economia circolare e microcredito” nella cornice della Basilica Superiore di San Francesco. Un appuntamento imperdibile per i suoi tuttora numerosi supporter. L’Italia lo ama, l’Europa e gli Stati Uniti non sono da meno. Incontri del genere, c’è da crederlo, sono un vero toccasana. Specie per chi come lui, da quasi dieci anni a questa parte, vive un lungo momento, per così dire, complicato.
Una stella offuscata
Muhammad Yunus, Premio Nobel per la Pace nel 2006, è nato a Chattogram, in Bangladesh, il 28 giugno di 79 anni fa. È l’unico bengalese ad aver ricevuto il massimo encomio, l’unico banchiere – o imprenditore sociale che dir si voglia – ad aver conquistato il riconoscimento nella categoria dei benefattori per antonomasia. Ma anni di polemiche, controversie e sospetti ne hanno pesantemente offuscato la stella. Non tanto in Occidente, dove le vicende bengalesi non lasciano traccia, quanto piuttosto nel suo Paese dove in molti – a torto o a ragione, per un motivo o per un altro – lo hanno preso ampiamente di mira.
Yunus contro il governo di Dacca
Nemo propheta in patria, si dice da almeno due millenni. Un motto che descrive alla perfezione la parabola del banchiere dei poveri passato direttamente dall’agiografia alle accuse più infamanti senza mai cadere davvero nella polvere ma senza nemmeno recuperare, al tempo stesso, quell’aura di santità laica. Capita, si sa. A lui è accaduto all’improvviso.
Nell’aprile del 2011 la Corte Suprema del Bangladesh ha respinto l’ultimo appello del Nobel contro la decisione del governo di rimuoverlo dalla direzione della Grameen. La motivazione ufficiale dei raggiunti limiti di età – Yunus aveva compiuto all’epoca 70 anni, dieci in più di quelli fissati come soglia per l’età pensionabile – non convinceva i suoi sostenitori. Nell’ipotesi di questi ultimi, lo Stato cercava solo un pretesto per mettere le mani su una banca redditizia, potente e conosciuta nel mondo. Grameen, recitavano in quel momento i bilanci pubblici, aveva quasi 1 miliardo e mezzo di dollari in deposito e crediti in essere per l’equivalente di 955 milioni di biglietti verdi. Con oltre 23mila dipendenti e 83mila villaggi raggiunti, la banca vantava un tasso di insolvenza sui prestiti decisamente basso: il 2,5%.
L’inchiesta in Norvegia
Alla fine del 2010, Yunus era stato accusato di sottrazione di fondi. Un’inchiesta della televisione norvegese, in particolare, sosteneva che il fondatore della Grameen avesse dirottato quasi 50 milioni di euro donati dal governo di Oslo nelle casse di una controllata. Qualche mese più tardi il banchiere sarebbe stato assolto.
Quel che è certo è che le schermaglie da tribunale rappresentavano allora soltanto la punta dell’iceberg. Da anni Yunus si trovava in aperto conflitto con la premier di Dacca, Sheik Hasina. Nel pieno delle polemiche quest’ultima aveva definito il banchiere «un succhiasangue dei poveri» con un chiaro riferimento alle controversie emerse nell’inchiesta di Oslo.
Al di là della storia dei fondi, il documentario norvegese, realizzato dal giornalista Tom Heinemann, gettava ombre pesantissime sul sistema del microcredito, accusato di imporre tassi esorbitanti ai debitori. La Grameen poteva contare su sostenitori di primo piano, a partire dall’allora segretario di Stato USA Hillary Clinton. Ma in Bangladesh, nonostante tutto, l’aria si faceva sempre più pesante.
Grameen e le accuse di usura
Salah Uddin Shoaib Choudhury, il direttore del quotidiano di Dakka WeeklyBlitz, accusava pubblicamente la Grameen di praticare tassi compresi tra il 40 e il 70%, sfondando di gran lunga la soglia di usura fissata dalla legge bengalese al 27%. Accuse ribadite in un’intervista con Valori pubblicata a marzo del 2011. Interpellata sull’argomento la banca respingeva ogni addebito. Dichiarando alla nostra testata di caricare interessi differenziati a seconda del tipo di prestito ma senza mai superare un limite del 20%. Grameen, tuttavia, non volle spiegarci per quale motivo non avesse querelato WeeklyBlitz per le sue affermazioni.
Nel 2014 Choudhury è stato condannato a sette anni di carcere per aver pubblicato articoli «dannosi» per l’immagine del suo Paese. Un pretesto per mettere a tacere una figura scomoda, affermavano i suoi sostenitori. Nemico giurato del fondamentalismo islamico e dell’antisemitismo, il direttore del Blitz ha ricevuto molti attestati di stima in Europa e negli Stati Uniti. Qualcuno, al contrario, lo ha addirittura accusato di essere un doppiogiochista. Chissà.
Microcredito insostenibile?
Ad oggi Yunus continua ad essere una figura ampiamente rispettata. Ma la sua invenzione ha perso da tempo l’immagine di panacea nella lotta alla povertà. Dalla bolla del credito con annessa epidemia di suicidi nella regione indiana dell’Uttar Pradesh, fino alle ultime inchieste sui debiti insostenibili dei contadini cambogiani. La validità della microfinanza nei Paesi poveri è stata messa decisamente in discussione.
In uno studio pubblicato nel 2017, i ricercatori Laurel Jackson (Western Sydney University) e Bobby Banerjee (Cass Business School di Londra) hanno puntato il dito contro la presunta inefficacia dei microcrediti proprio in Bangladesh. La loro indagine, condotta in tre villaggi del Paese, evidenziava come il 91% dei prestiti monitorati venisse utilizzato come forma di credito al consumo per l’acquisto di beni primari. Incapaci di creare adeguate attività imprenditoriali, i clienti finivano con l’indebitarsi ulteriormente ad interessi particolarmente alti. Il classico circolo vizioso della povertà.