India, la storia del contestato mega-porto di Adani a Vizhinjam
Il futuro mega-porto di Adani a Vizhinjam divide la popolazione: i pescatori cattolici sono contrari, gli hindu della terraferma favorevoli
Vizhinjam è una località dello Stato del Kerala, nell’estremo sud dell’India. Si trova a pochi chilometri dalla capitale Thiruvananthapura ed è parte della sua area metropolitana. È una zona costiera, affacciata sul mar Arabico, da sempre abitata da popolazioni dedite alla pesca e al commercio. Si ha notizie di un porto in quest’area fin dal primo secolo avanti Cristo, e qui portoghesi prima e olandesi poi costruirono le loro basi commerciali.
Proprio la posizione privilegiata in mari pescosi e al centro delle rotte commerciali globali pone oggi gli abitanti di fronte ad un dilemma. Una scelta dolorosa arrivata fin sulle pagine della stampa internazionale, che interseca gli effetti della globalizzazione con diffidenze religiose e politiche. È la storia del mega-porto di Vizhinjam, del colosso Adani.
Il progetto di Adani
Adani Port & SEZ è il più grande operatore privato nella logistica portuale indiana, parte del gigante Adani Group. Nel 2015 si è aggiudicato l’ampliamento e la gestione del porto di Vizhinjam. Un progetto da 900 milioni di dollari, che punta a intercettare i flussi commerciali che collegano le manifatture asiatiche ai mercati occidentali sfidando giganti come Colombo, Singapore, Dubai.
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L’ambizione si è scontrata, per ora, con molte difficoltà. Il cantiere, che doveva chiudersi secondo l’azienda in appena mille giorni, è ancora in alto mare. E una delle cause del ritardo è la forte contrarietà dei pescatori locali.
Le proteste in India
Il nuovo porto ha trovato nella comunità dei pescatori il suo principale oppositore. Gli abitanti della zona denunciano l’impatto ambientale dell’opera. Sostengono che i lavori per le nuove infrastrutture porteranno – e già stiano portando – ad erosione costiera e alla devastazione dell’ecosistema marino.
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La stampa locale riporta le richieste dei pescatori. Si va da maggiori sussidi per il carburante delle barche – perché, sostengono i manifestanti, a causa del porto occorrerà pescare più al largo – a ristori economici per le allerte meteo o gli incidenti di pesca. Il governo del Kerala ha aperto a diverse di queste richieste, ma non alla più importante: lo stop ai lavori per il nuovo porto fino a nuove indagini sul suo effettivo costo ecologico.
Mare contro terra, cristiani contro hindù
Adani, dal canto suo, si dice certa della sostenibilità dell’opera. L’azienda è forte del parere positivo del ministero dell’Ambiente e del National Green Tribunal, la corte speciale dedicata alle questioni ambientali.
Ma il progetto ha alleati anche al di fuori dei palazzi governativi e giudiziari. Il porto ha diviso la popolazione locale secondo una faglia assieme sociale, lavorativa e religiosa.
Mentre chi lavora in mare, i pescatori, si oppone alle nuove infrastrutture, gli abitanti dell’entroterra sono in maggioranza favorevoli all’opera. Una spaccatura che tocca divisioni profonde della società indiana. Le comunità di pescatori sono in larga maggioranza cristiane cattoliche – e proprio i sacerdoti sono a capo delle proteste. Chi vive nell’interno, al contrario, è hindu, e vede nel porto una preziosa occasione di sviluppo.
L’escalation: occupazioni e scontri
Comunità contrapposte, un progetto da centinaia di milioni di dollari a rischio e un possibile caso di devastazione ambientale in vista. Sono gli ingredienti per un conflitto che inevitabilmente è scoppiato.
I pescatori, guidati dalle parrocchie, hanno iniziato a costruire tende e barricate sulla strada che porta al cantiere, per bloccare i lavori. La giustizia da settimane gli ha intimato di rimuovere i blocchi. Ma i manifestanti sono determinati a restare, e la polizia esita ad intervenire per paura di gettare benzina sul fuoco della rivolta. «Siamo pronti a farci arrestare in gran numero, se necessario», ha dichiarato all’agenzia Reuters il vicario generale dell’arcidiocesi Eugine H. Pereira.
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Contro la protesta dei pescatori e in favore della prosecuzione dei lavori sono scese in piazza diverse centinaia di persone. Accusano chi blocca l’infrastruttura portuale di essere manipolato dall’estero, e di impedire lo sviluppo del Paese e la creazione di nuovi posti di lavoro.
In entrambe le piazze è difficile definire un’orientamento politico chiaro – specie se tarato sugli standard occidentali. Mentre le proteste dei pescatori sono rese omogenee dall’appartenenza lavorativa e religiosa, le contro-manifestazioni in favore del porto sono più composite. La stampa racconta come molti tra quanti scendono per le strade chiedendo di proseguire coi lavori siano militanti del Bharatiya Janata Party, il partito iper-nazionalista del primo ministro Narendra Modi. Ma l’infrastruttura non piace solo alla destra. Il Kerala è la regione rossa per eccellenza dell’India, con al potere dal 2016 il Partito Comunista Indiano. Il progetto del porto è nato durante i governi del centrodestra, ma la sinistra lo ha fatto proprio e anche i comunisti difendono a spada tratta l’opera in nome della necessaria industrializzazione dello Stato.
Il momento di massima conflittualità si è raggiunto con l’assalto al cantiere da parte dei manifestanti e il rogo di alcune barche. Adani Port ha accusato la polizia di connivenza con i pescatori, e la tensione nell’area è rimasta altissima.
Chi paga la mega-infrastruttura?
Nei territori interessati la fine delle proteste sembra lontana. Ma anche altrove sono emersi dubbi sul mega-porto di Vizhinjam. Il Comptroller and Auditor General of India, un’organo simile alla nostra Corte dei Conti, ha già da anni messo in discussione le condizioni economiche della partnership pubblico-privato su cui l’intera opera si regge.
Secondo gli accordi tra il governo del Kerala e Adani Port, infatti, all’azienda spetterebbe solo un terzo dei costi, mentre la restante parte sarebbe coperta dallo Stato. La gestione, invece, sarebbe affidata esclusivamente ad Adani per quarant’anni. Patti considerati iniqui dal Comptroller.
Adani, il miliardario amico di Modi
«È un’impasse ad alto rischio e senza una soluzione facile», scrive la Reuters a proposito del progetto. Adani Port, però, ha molte frecce al suo arco. L’azienda è parte del conglomerato Adani Group, un gigante industriale che si contende con pochi altri il titolo di primo in India per valore di mercato. Il suo proprietario e fondatore, Gautam Adani, è terzo nelle classifiche di Forbes e Bloomberg sugli uomini più ricchi al mondo, preceduto solo da Elon Musk e Bernard Arnault.
La sua è una fortuna costruita anche e sopratutto sui combustibili fossili: il 60% delle entrate del gruppo è legato al carbone, secondo il Washington Post. Un tycoon all’americana che può vantare una storica amicizia col presidente Narendra Modi.
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Da poco Adani ha attirato le attenzioni dei media globali per un’operazione commerciale: l’acquisizione dell’emittente New Delhi Television. Si tratta di una delle più conosciute e rispettate reti televisive indiane, nonché una delle poche non filo-governative. L’obiettivo dichiarato è quella di rendere NDT un media di livello globale, una «Al-Jazeera indiana». Ma sono in molti a temere che, come conseguenza dell’acquisto, la rete diventi uno strumento di pubbliche relazioni del gruppo Adani. La paura è che si ammorbidisca il racconto mediatico di vicende come quella del porto di Vizhinjam.
L’ultima grande progetto targato Adani bersaglio di forti proteste è stata la miniera di carbone Carmichael, in Australia. In quel caso, dopo anni di contestazioni, l’azienda venne a patti coi manifestanti. Succederà lo stesso anche a Vizhinjam?