Si può essere sostenibili trasportando carbone? Sì, secondo le agenzie di rating

I rating ESG promettono di selezionare le aziende sostenibili. Ma il caso di un'impresa indiana mette in discussione la loro efficacia

Protesta contro un progetto Adani nel maggio del 2019 © robb1037/iStockPhoto

Prendete un grande conglomerato industriale che opera nei settori più disparati – dall’energia alla logistica. Selezionate la branca di questo colosso che gestisce la principale rete portuale dell’India e il terminal d’importazione di carbone più grande al mondo. Immaginate che quest’azienda sia accusata di fare affari con regimi che violano in modo sistematico i diritti umani.

La società che ottenete è la Adani Port, parte del gigante indiano Adani Group. E l’aspetto paradossale della sua storia, raccontato dal Financial Times in un recente articolo, è che si tratta di un’azienda giudicata «responsabile» da alcuni tra i più prestigiosi operatori specializzati. 

Dentro il magico mondo degli ESG

Il marchio di sostenibilità di cui Adani Port può fregiarsi deriva dal suo inserimento negli indici ESG compilati da grandi fornitori di servizi finanziari e indici borsistici, in particolare MSCI e FTSE Russel. ESG, acronimo che sta per Environment, social, governance, è la triade di termini chiave in questa storia. 

Divenuti popolari nei primi anni 2000, gli ESG possono essere definiti come quei parametri ambientali, sociali e di gestione che permettono di classificare un’impresa come sostenibile. Grandi operatori pubblici e privati stilano indici in cui classificano aziende di tutto il mondo come più o meno aderenti a questi criteri. E le corporation fanno a gara per ottenere punteggi più alti. Un meccanismo simile a quello delle più celebri agenzie di rating, che misurano la stabilità finanziaria di Stati e imprese, ma applicato, appunto, alla sostenibilità.

Gli investimenti classificati come ESG valevano nel 2020 35.300 miliardi di dollari. All’incirca i PIL di Stati Uniti ed Unione europea sommati. Nelle intenzioni di chi porta avanti questa metodologia, gli indici servono ad indirizzare gli investitori verso aziende che rispettano l’ambiente, i diritti umani e sindacali, la legalità.

Non tutto è oro ciò che luccia

Lo iato tra il volume di questi investimenti e il reale stato degli ecosistemi e dei diritti umani e sociali nel mondo, però, ci rivela i limiti di questo approccio. Meno di un anno fa un lungo approfondimento di Bloomberg, significativamente intitolato Il miraggio degli ESG, raccontava come gli indici di sostenibilità dicano ben poco sul reale impatto delle aziende.

McDonald’s, ad esempio, ha ottenuto una revisione al rialzo del suo punteggio a cavallo tra il 2020 e il 2021. Raggiungendo il rispettabile livello BBB su una scala che va da CCC ad AAA. Un giudizio perfettamente nella media, nonostante il gigante del fast food emetta più di Paesi come il Portogallo o l’Ungheria. Nonostante proponga un menù a base di carne climaticamente insostenibile. E nonostante le sue emissioni siano aumentate del 7% nei quattro anni precedenti alla valutazione. 

Quello di McDonald’s non è un caso isolato. JP Morgan, la celebre banca d’affari, ha investito 317 miliardi di dollari nei combustibili fossili a partire dall’Accordo di Parigi del 2015. Una cifra che la pone al primo posto nella classifica delle banche nemiche del clima stilata dal rapporto Banking on Climate Chaos. Ciononostante, secondo MSCI, Jp Morgan è in linea con il rispetto degli impegni climatici e si merita una A. 

Queste valutazioni rischiano di confondere gli investitori, anche piccoli, che in buona fede vorrebbero concedere i loro soldi ad aziende etiche. Nel 2019 Morning Star raccontava la storia dell’Impact US Equity Fund. Un fondo che si proponeva come un collettore di «titoli azionari di società con un impatto sociale aggregato positivo». Ma al cui interno risultavano aziende come Facebook, Goldman Sachs, Exxon Mobil.

Adani Port: storia di una valutazione sbagliata

Seppure con un nome meno altisonante, anche Adani Port, l’azienda da cui siamo partiti, ha una storia simile a quelle di cui sopra. È vero che i rapporti col regime militare del Myanmar e il coinvolgimento nella controversa miniera di carbone Carmichael in Australia sono costati all’azienda indiana l’esclusione da alcuni indici ESG compilati da MSCI e S&P Dow Jones. Ma Adani Port rimane ben presente in altri due indici di sostenibilità MSCI (CTB Emerging Markets ESG Enhanced Focus e ACWI Low Carbon Target) e altrettanti di FTSE (Emerging Asia ESG e FTSE4Good Emerging).

Non solo: la no-profit CDP, che si occupa di impatto ambientale, ha assegnato ad Adani Port un punteggio “B” in materia di riscaldamento globale. Il secondo più alto nel suo modello. Ciò benché, secondo l’agenzia di rating Moody’s, più di un quarto delle entrate dell’azienda nei prossimi anni verrano dal business del trasporto del carbone. Il più dannoso dei combustibili fossili.

Il trasporto di carbone è la principale fonte di entrate per Adani Port ©Satephoto/iStockPhoto

Manca uniformità nelle valutazioni sugli standard ESG

Com’è possibile tutto questo? La chiave è la mancata uniformità delle valutazioni. Nonostante gli sforzi delle Nazioni Unite e di alcuni governi, non esiste un sistema unico per identificare i criteri ESG e per classificare di conseguenza le aziende. Diversi operatori seguono diverse metodologie, e la corporation giudicata negativamente in un indice può apparire come sostenibile in un altro.

Il caso di Adani Port è esemplificativo di questa confusione. CDP dichiara che il suo punteggio non è da intendersi come «indice di leadership ambientale», ma deriva da alcuni miglioramenti nelle performance dell’azienda. In particolare, dall’aver iniziato a compilare report sui rischi legati alla crisi climatica.

Ancora più complessa la posizione di MSCI. Innanzitutto l’agenzia statunitense, leader nel settore del rating ESG, esclude da diversi suoi indici chi estrae e brucia carbone. Ma non chi lo trasporta – salvando così in corner l’Adani Port. Ma sopratutto MSCI non valuta davvero l’impatto dell’azienda. Come spiegato ai nostri lettori in un recente articolo, è vero in qualche modo l’opposto. «Il nostro rating è progettato per misurare la resilienza di un’azienda ai rischi ambientali, sociali e di governance (ESG) a lungo termine del settore», spiega l’agenzia. Per apparire negli indici MSCI, dunque, non bisogna garantire l’assenza di impatti negativi, come forse ci aspetteremmo. Basta dimostrare la capacità di resistere alle difficoltà che le questioni ESG potranno porre.

Salvare gli ESG?

Da più parti si chiede agli enti regolatori di tutto il mondo una seria riforma dei criteri ESG e della loro valutazione. Negli Stati Uniti Gary Gensler, presidente della SEC (Securities and Exchange Commission, l’equivalente della nostra Consob) ha istituito una task-force sul tema. E ha aperto alla possibilità di standard vincolanti, e non volontari, da imporre alle aziende.

Un tentativo di rendere il sistema ESG più efficiente che ha riscontri anche altrove. Nell’Unione europea già oggi le aziende «d’interesse pubblico» sopra i 500 dipendenti devono redigere obbligatoriamente un report di sostenibilità. In Canada il primo ministro Justin Trudeau ha caldeggiato al creazione di un’ente regolatore mondiale dedicato agli ESG, l’International Sustainability Standards Board (ISSB). Candidandosi anche a ospitarne la sede centrale.

Nessuno di questi tentativi, però, sembra per ora aver reso gli ESG uno strumento davvero efficace nel fronteggiare le crisi umanitarie, sociali e ambientali che affollano il nostro Pianeta. E il caso Adani Port è qua a dimostrarlo.