Quali sono le conseguenze degli altissimi prezzi alimentari del 2022

L'impennata dei prezzi alimentari vissuta nel 2022 mette in ginocchio il Sud del mondo. Ma è la logica conseguenza della speculazione

Un mercato di beni alimentari in Kenya © World Bank/Sambrian Mbaabu

Nel mese di dicembre del 2022 l’indice dei prezzi alimentari è sceso. Per il nono mese consecutivo. Lo comunica l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura (FAO). Si è attestato infatti sui 132,4 punti, 2,6 in meno rispetto al mese precedente. Ma non c’è niente da festeggiare. Perché la media annuale del 2022 è stata la più alta di sempre: 143,7 punti. Nemmeno nel pieno della primavera araba, con l’ondata speculativa sul cibo, era arrivata a tanto.

Il record segnato dall’indice dei prezzi alimentari nel 2022

Il picco assoluto dell’indice dei prezzi alimentari è stato segnato in primavera, con lo scoppio della guerra in Ucraina. A pesare, in particolare, l’impennata dei prezzi dei cereali (che hanno toccato i 173,5 punti a maggio, contro una media di 131,2 nel 2021) e degli oli vegetali (251,8 punti a marzo, contro una media di 164,9 nel 2021). Entrambi prodotti di cui Russia e Ucraina sono – o meglio, erano – grandi esportatori.

A partire da giugno si è assistito a una graduale discesa, fino ad arrivare appunto ai 132,4 punti di dicembre, 11,3 in meno rispetto a un anno prima. Ma ciò non toglie che, nel suo insieme, il 2022 sia stato un anno record, in cui gli alimentari – beni essenziali per definizione – hanno raggiunto prezzi mai visti prima. «Il fatto che i prezzi delle commodity alimentari si siano placati è positivo», commenta il capo economista della FAO Maximo Torero, invitando però a non abbassare la guardia. «È importante restare vigili e mantenere un forte focus sulla mitigazione dell’insicurezza alimentare globale», ha continuato, tanto più con «molti prodotti di base vicini ai massimi storici, i prezzi del riso in aumento e ancora molti rischi associati alle forniture future».

Le conseguenze per le persone comuni

Ma cosa significa, tutto questo, per le persone comuni? Quelle che, banalmente, fanno la spesa per mettere un pasto in tavola alla propria famiglia? Le conseguenze di un’impennata dei prezzi alimentari così netta e duratura si ripercuotono, gioco forza, su chiunque. Così, mentre in Canada si litiga su Twitter su cinque petti di pollo messi in vendita a 37 dollari canadesi, in Italia l’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) parla di un aumento annuo del 13,1% dei prezzi di beni alimentari e bevande analcoliche tra dicembre 2021 e dicembre 2022.

In economie avanzate come queste, per la maggioranza della popolazione ciò significa tirare la cinghia. Nei Paesi in via di sviluppo i sacrifici sono ancora maggiori. Talvolta drastici. «Ho dovuto ridurre il numero di pasti. Prima ne facevamo quattro al giorno, ora mangiamo al mattino e poi aspettiamo fino alla cena», racconta alla rivista The Continent Anziswa Ndlovu. Pasti che molto spesso sono costituiti da pane e nient’altro, visto che anche la margarina ormai costa troppo. Ndlovu Ha 49 anni e vive a Cosmo City, nei pressi di Johannesburg, in Sudafrica. Nel 2020 ha perso il lavoro per via del Covid-19 e ha tre figli da mandare a scuola.

L’impatto della crisi alimentare sull’Africa

Anche prima di questa crisi, nell’Africa subsahariana una famiglia media spendeva all’incirca la metà del suo reddito per cibo ed energia. Il 23,2% della popolazione ha sofferto la fame nel 2021; i dati del 2022 non potranno che rivelarsi peggiori. In un Paese come il Kenya, già nel 2021 sette persone su dieci dichiaravano di non avere avuto, nell’anno precedente, abbastanza denaro per comprare da mangiare a sé stesse e alla propria famiglia. Da aprile, il costo di un litro di olio alimentare è aumentato del 42% e un pacco di grano da 2 kg del 25% circa. Non c’è dunque da stupirsi che, alla vigilia delle elezioni di agosto (poi vinte da William Ruto), spopolavano hashtag come #NjaaRevolution («Rivoluzione della fame») o #NoFoodNoVotes («Niente cibo, niente voti»).

La fame infatti, oltre a essere un’ingiustizia e un’emergenza umanitaria, è anche un problema politico e sociale. «Uno stomaco vuoto non è un buon consigliere politico. La politica riguarda l’economia e l’economia riguarda questioni di pane e burro. Ogni volta che un Paese, una comunità o una famiglia rischia di rimanere senza cibo, si rischia l’instabilità sociopolitica» commenta a The Continent Victor Kgomoeswana, consulente ed editorialista sudafricano.

Nell'Africa subsahariana una famiglia media spende circa la metà del proprio reddito per cibo ed energia © World Bank / Sambrian Mbaabu
Nell’Africa subsahariana una famiglia media spende circa la metà del proprio reddito per cibo ed energia © World Bank/Sambrian Mbaabu

Non è vero che manca il cibo

Ma siamo proprio sicuri del fatto che questo boom dei prezzi alimentari fosse inevitabile? Diversi segnali, raccolti da un’inchiesta di Lighthouse Reports, suggeriscono il contrario. È vero infatti che sono venute meno le esportazioni da parte di Russia e Ucraina, ma è vero anche che altri Paesi hanno preso il loro posto. Oggi, nonostante guerre e cambiamenti climatici, le riserve di cereali superano di un terzo la quantità necessaria per sfamare ogni singolo abitante del Pianeta. Insomma, la produzione globale di cibo è aumentata ma sono aumentati anche i prezzi, infrangendo la più basilare legge dell’economia, quella della domanda e dell’offerta. Quello che è successo allo scoppio della guerra in Ucraina, sostiene l’inchiesta, è che le grandi società finanziarie hanno incoraggiato i propri clienti a scommettere su un rialzo dei prezzi alimentari. Insomma, a speculare.

Quanto incide la speculazione sui prezzi alimentari

La cosiddetta speculazione, di per sé, nasce da esigenze comprensibili. Immaginiamo che un agricoltore prenda accordi per un mugnaio per vendergli una determinata quantità di grano a un determinato prezzo. C’è però la possibilità che la stagione agricola vada male. Per tutelarsi, il mugnaio vende sul mercato dei futures un contratto per la stessa quantità di grano. A quel punto subentra un investitore che lo compra, scommettendo sulla crescita dei prezzi: se la sua previsione si avvera, può intascare la differenza.

Insomma, la finanza entra in gioco per tenere sotto controllo il margine di rischio. Almeno in teoria. Quello che accade oggi è che la quasi totalità dei futures è negoziata tra operatori che con l’agricoltura non c’entrano nulla, e senza che avvenga uno scambio reale di merce. Al mercato dei cereali di Parigi, il più grande d’Europa, nel 2018 circa un contratto sul cibo su quattro era di carattere speculativo. Oggi la quota è salita a tre su quattro.

I prezzi dei futures, così, finiscono per svincolarsi da domanda e offerta. È proprio quello che sta succedendo. Peccato, però, che siano usati come benchmark per i prezzi alimentari reali. Quelli che Anziswa Ndlovu, e tutte le persone come lei, devono pagare per sfamare i propri figli. Lapidario il commento di Olivier De Schutter, relatore speciale delle Nazioni Unite sulla povertà estrema e i diritti umani: «L’attività speculativa di potenti investitori istituzionali, generalmente indifferenti ai fondamentali del mercato agricolo, scommette davvero sulla fame e finisce per esacerbarla».