Perché ci vuole un Piano Marshall per il clima finanziato dalla Banca Mondiale
Si è parlato più volte di un Piano Marshall per il clima. Ma chi dovrebbe finanziarlo? La Banca Mondiale dovrebbe tornare a "ricostruire"
Era il 1947 quando il segretario di stato americano George Marshall annunciò l’introduzione di un piano per la ripresa europea, il cosiddetto Piano Marshall, che consisteva in una dotazione di 12,7 miliardi di dollari per sostenere economicamente la ricostruzione dell’Europa nel secondo dopoguerra.
Dopo la pandemia sono stati lanciati diversi piani con lo stesso intento, ovvero per “ricostruire” l’economia pubblica. Uno su tutti è il Next Generation EU, lanciato dall’Unione europea e che in Italia è diventato il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Benché il Next Generation Eu tocchi anche le questioni climatiche (ma non solo), nel dibattito pubblico, talvolta, qualcuno si chiede il perché non sia mai stato lanciato un analogo piano tutto dedicato al contrasto, alla mitigazione e all’adattamento ai cambiamenti climatici. Insomma, una sorta di “Piano Marshall del clima” è possibile?
La Banca Mondiale dovrebbe avviare un Piano Marshall per il clima
Come anticipato, di Piano Marshall del clima se n’è già parlato più di una volta, ma chiunque ci abbia provato si è arenato davanti ai risvolti pratici. Quali misure dovrebbe prevedere un piano di questo tipo? Chi lo finanzierebbe e quanto costerebbe?
L’ultimo in ordine cronologico a porsi queste domande è stato Alastair Marsh, giornalista di Bloomberg. Benché non sia riuscito ad abbozzare una risposta per ciascuna di queste domande, Marsh ha chiarito chi dovrebbe prendersi la briga di condurre e coordinare un piano del genere: la Banca Mondiale. Proprio quell’istituzione il cui direttore, David Malpass, si è contraddistinto di recente per le sue posizioni negazioniste. Inoltre, nel concreto – dato che di concretezza si parla – la Banca ha finora preferito sostenere più progetti legati ai combustibili fossili che alle rinnovabili.
Banca fossile
Come la Banca Mondiale finanzia la crisi climatica
Il presidente della Banca Mondiale David Malpass è sotto attacco per le sue posizioni negazioniste. Ma le colpe dell’istituto vanno ben oltre
Nonostante tutto ciò, il giornalista di Bloomberg insiste: la Banca Mondiale rappresenta l’ente che dovrebbe guidare la transizione energetica, insieme alle Banche Multilaterali di Sviluppo (MDB), che hanno un’enorme influenza su come ricollocare gli investimenti delle più grandi società finanziarie ed economiche del mondo. D’altronde, l’istituto con sede a Washington ha trascorso quasi 80 anni a ricostruire Paesi, sviluppare progetti e tirare fuori le persone dalla povertà. Perché non farlo anche in questa occasione?
Incentivare gli interessi delle società private
Se analizziamo la situazione corrente, è facile accorgersi di come solo una frazione di tutto il denaro disponibile nei bilanci delle grandi società sia destinato a misure di contenimento della crisi climatica. Su questo è necessario concentrarsi: «Non c’è abbastanza denaro pubblico per finanziare la transizione. Eppure, i capitali privati potrebbero non essere sufficientemente incentivati per colmare questo divario», spiega Marsh.
Per il giornalista, Banca Mondiale e MDB devono agire quali «assicuratori della decarbonizzazione», ovvero come istituzioni in grado di ridurre il rischio per gli investitori privati. È solo incentivando le banche e la finanza privata che si possono ottenere ricadute positive sull’intera economia.
Non solo. Bisogna permettere anche alle economie, quelle pubbliche e soprattutto quelle meno sviluppate, di indebitarsi e investire maggiormente nella transizione. Su questo la Banca Mondiale sa bene che più instabilità politica e sociale si traduce in minore flusso di finanziamenti per il clima: circa la metà delle nazioni inserite dalla Banca Mondiale nella lista dei Paesi fragili e attraversati da conflitti fa parte allo stesso tempo della lista di Paesi considerati particolarmente vulnerabili di fronte ai cambiamenti climatici.
Ma portare i finanziamenti nelle economie in via di sviluppo richiede il superamento di diversi ostacoli agli investimenti, tra cui vincoli di rating del credito, rischi di cambio e la possibilità di indebitarsi, cosa quest’ultima che le economie emergenti non possono permettersi.
Una tabella di marcia chiara per raggiungere gli obiettivi
L’approccio di Marsh non è esente da critiche: le società finanziarie già godono di scappatoie fiscali, quello che gli manca è l’etica, piuttosto. Il dibattito è aperto ma una cosa è certa: «La Banca Mondiale deve svolgere un ruolo di primo piano: i Paesi in via di sviluppo hanno bisogno di ulteriori finanziamenti per far fronte alle esigenze climatiche e pandemiche, senza sacrificare gli attuali sforzi di riduzione della povertà. Inoltre, non dovrebbero pagare tassi di interesse esorbitanti, attualmente del 10-20%», ha detto Sonia Dunlop, che supervisiona il lavoro del think tank sui cambiamenti climatici E3G sulle banche pubbliche.
La Banca Mondiale, fa notare ancora Dunlop, ha sì lanciato l’idea di un fondo agevolato della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo (IBRD) ma «sarà necessaria la dovuta diligenza per evitare favoritismi». Inoltre, non c’è una timeline certa relativa a questo fondo: «Una poli-crisi globale non può essere risolta senza una visione audace da parte dei leader globali. I nostri rappresentanti devono ritenere la Banca mondiale responsabile della produzione di una tabella di marcia chiara e con obiettivi climatici certi. Perché solo la Banca Mondiale ha il potenziale per essere il principale soggetto per realizzare quella tabella», è la conclusione di Dunlop.
La crisi del modello capitalistico
Davanti alla “poli-crisi”, come la chiama Dunlop, al quale si aggiunge Adam Tooze, storico dell’economia britannico, la risposta non può essere il mercato. Il mercato non ha risolto la pandemia, così come non sta risolvendo la guerra. E tantomeno risolverà la crisi climatica. Eppure, davanti allo spettro della recessione globale, i Paesi ricchi tendono a chiudersi a riccio e a usare le risorse a disposizione per salvare i propri elettori (o perlomeno quelli più agiati). Non saranno l’egoismo né il nazionalismo a salvarci dalla crisi climatica: dovrebbe essere ormai chiaro che nessuno può salvarsi da solo.
Il mondo dovrebbe invece finalmente uscire dal modello di capitalismo neoliberista, come ha pure ammesso il Financial Times, una testata che di certo non ha posizioni no-global: la testata britannica ha annunciato che per il neoliberismo «è arrivato il momento di uscire di scena». Certo, la critica al capitalismo non è una novità, ma ora, mentre comincia il quarto anno di pandemia e il secondo di guerra in Ucraina, questa avversione si sta diffondendo.
Come scrive il settimanale tedesco Der Spiegel, «in passato, il capitalismo industriale ha garantito livelli di benessere tali da rendere praticamente impossibile attuare idee davvero nuove». Questa volta, però, «abbiamo un’occasione reale per dar vita a un capitalismo più equo e sostenibile». E per giungere a questo obiettivo, come profetizzava già Karl Marx 150 anni fa, ci vuole meno mercato e più Stato.