Agricoltura biologica o intensiva: dove vanno i fondi pubblici?
L'agricoltura biologica ha un impatto positivo comprovato sull'ambiente e sulla salute. Ma le viene riconosciuto?
Tutelare la salute umana, rispettare i diritti degli animali, salvaguardare la biodiversità, rallentare il riscaldamento globale. Queste grandi missioni, urgenti e universali, hanno qualcosa in comune. Il successo di tutte loro dipende anche dal nostro sistema agroalimentare. L’agricoltura biologica si è sempre dimostrata virtuosa, da tutti questi punti di vista. Ma viene premiata per questo? È capitato, o capita tuttora, che i fondi pubblici finiscano per favorire il modello intensivo che rappresenta il suo esatto contrario?
Le distorsioni nei fondi della Pac e come superarle
Parlare di agricoltura in Europa significa inevitabilmente parlare di Politica Agricola Comune, meglio nota come PAC, recentemente riformata. Nel periodo 2014-2020 valeva qualcosa come il 37,8% del bilancio dell’Unione, mentre tra il 2021 e il 2027 si fermerà “solo” al 31%. A lungo, però, i fondi sono stati distribuiti in un modo che agli operatori del biologico appariva paradossale.
Per via del sistema dei titoli storici, infatti, i fondi sono stati erogati sulla base degli ettari coltivati, indipendentemente dal metodo di produzione. Determinando quindi una forte concentrazione: l’80% dei fondi è stato destinato appena al 20% delle aziende, tagliando sostanzialmente fuori le piccole realtà in territori remoti, impossibilitate ad aggregarsi tra loro.
FederBio ha condotto un’analisi sulla precedente programmazione della PAC, basandosi sui dati del Centro Studi della Camera. «In Italia, nel periodo 2014-2020, l’agricoltura biologica ha ricevuto soltanto il 2,3% dei fondi della PAC pur rappresentando – alla fine del 2020 – il 16% della superficie agricola utilizzata (SAU)», spiega a Valori Maria Grazia Mammuccini, presidente di FederBio, federazione di organizzazioni di tutta la filiera dell’agricoltura biologica e biodinamica.
L’abbiamo incontrata sabato 4 febbraio a Palazzo Giureconsulti per la tappa milanese della Festa del bio, un evento che ha superato le 5mila presenze. La sproporzione si riscontra anche a livello europeo, con l’1,8% dei fondi erogati a favore dei sistemi biologici e biodinamici, che pure nella primavera 2021 avevano superato l’8% delle aree coltivate. D’altra parte, «più l’azienda è intensiva e lavora sulla monocoltura, più ha superfici vaste, più soldi riceve».
Un valore anche sociale
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L’ambizioso obiettivo europeo: agricoltura biologica al 25%
Dopo un biennio di transizione tra il 2020 e il 2022, a partire dal 2023 i titoli storici verranno ricalcolati, superando almeno in parte questi limiti. Tanto più perché le strategie europee sulla biodiversità e sull’alimentazione (Farm to Fork), entrambe parte del Green Deal, pongono un obiettivo ambizioso. Entro il 2030, il 25% della superficie agricola europea dovrà essere coltivata a biologico. L’Italia è sulla buona strada con il suo 17,4%, ma la media europea – pari al 9,2% – è ancora lontanissima al traguardo. Insomma, bisognerà premere sull’acceleratore.
Tra le novità più rilevanti della nuova Pac ci sono gli eco-schemi: in aggiunta al pagamento di base per ettaro, ce ne sarà uno aggiuntivo per gli agricoltori che osservano determinate pratiche virtuose per l’ambiente, identificate dai governi. Attraverso il suo Piano strategico nazionale, l’Italia ne ha identificati cinque.
- Benessere animale e riduzione degli antibiotici.
- Inerbimento colturale pluriennale.
- Salvaguardia olivi di particolare valore paesaggistico.
- Sistemi foraggeri estensivi con avvicendamento.
- Misure specifiche per gli impollinatori.
A loro sarà destinato loro il 25% delle risorse per i pagamenti diretti, cioè la soglia minima fissata dall’Europa. «Gli eco-schemi sono un passo in avanti molto importante. Ma sono stati usati al minimo (noi avevamo proposto di stanziare il 30% delle risorse) e anche, parzialmente, per compensare alcuni settori che rischiavano di rimetterci di più, come la zootecnia. Come FederBio capiamo bene che non è un passaggio facile e la gradualità è necessaria, ma l’Italia poteva comunque dimostrarsi più coraggiosa», commenta Mammuccini.
«L’agricoltura biologica – aggiunge – rappresenta comunque il punto più avanzato del Piano strategico nazionale: l’obiettivo del 25% della superficie agricola è previsto infatti per il 2027, con tre anni di anticipo rispetto all’Europa». Tant’è che, rispetto alla programmazione precedente per le misure a superficie, sono aumentate in modo significativo le risorse per gli agricoltori che si convertono al bio. «Chiediamo però che se ne aggiungano altre per servizi di consulenza aziendale, informazione, comunicazione: non basta convertirsi al biologico, bisogna anche crescere a livello imprenditoriale».
Oltre alla produzione, come sostenere i consumi?
Se cresce l’area coltivata a biologico, infatti, devono parallelamente crescere anche i consumi. In caso contrario, una scelta virtuosa per l’ambiente rischia di rivelarsi controproducente in termini di fatturato. Se è vero che le vendite di prodotti bio in Italia hanno segnato un clamoroso +133% nel decennio tra il 2011 e i primi sette mesi del 2021, è vero anche che i dati più recenti hanno destato qualche preoccupazione.
Nel 2022 infatti le vendite nel mercato interno hanno raggiunto i 5 miliardi di euro, trainate però soprattutto dai consumi fuori casa (+53% sul 2021); quelli domestici, al contrario, segnano una lieve flessione dello 0,8% a valore. Questo anche per via di lacune nella comunicazione, ha spiegato Mammuccini a Valori.
«La politica potrebbe fare moltissimo per il biologico, impostando politiche che lo sostengano», sostiene Roberto Zanoni, presidente di AssoBio, l’associazione nazionale delle imprese di produzione, trasformazione e distribuzione dei prodotti biologici e naturali. Anche lui era tra gli ospiti della Festa del Bio di Milano.
Qualche esempio di politiche favorevoli? «Creare una piattaforma di tracciabilità, validata dal ministero, che dimostri il percorso del prodotto (italiano o importato) dal campo alla tavola. Oppure il credito di imposta per coprire il costo della certificazione. Quest’ultima arriva a gravare tre volte sul prezzo al pubblico, perché a pagarla sono il produttore, il trasformatore e il distributore. Si dice che il biologico è caro, ma lo è perché chi è attento alla qualità della vita, dell’aria, della terra e così via deve anche farsi carico questa spesa in più. Infine bisogna istituire il marchio made in Italy, previsto dalla legge sul biologico».
Gli allevamenti intensivi mettono a rischio anche la nostra salute
Oltre all’agricoltura ci sono gli allevamenti, tema di un altro panel alla Festa del Bio di Milano e del nuovo Quaderno di Cambia la terra. Sul benessere animale si sta consolidando una sensibilità sempre più spiccata, ma non tutti sanno che in gioco c’è anche molto altro. Lungo la filiera mangimistica-zootecnica si verificano ingenti perdite di azoto. Perdite che costituiscono un costo; in Lombardia si parla di 160 euro a ettaro ogni anno. Ma anche una minaccia per la salute.
L’ammoniaca gassosa (NH3), infatti, una volta liberata in atmosfera si combina con gli ossidi di azoto e di zolfo generando polveri sottili. Stando alle valutazioni di Arpa Emilia-Romagna, ormai il suo contributo al particolato secondario è pari a quello del traffico. E l’inquinamento atmosferico, stando ad alcuni studi, riduce di 2,2 anni l’aspettativa media di vita a livello globale. Peggio del fumo di sigaretta.
A peggiorare il quadro è il fatto che i risultati degli sforzi per ridurre le emissioni siano ad oggi deludenti, in particolare per l’ammoniaca. Leggendo il Quaderno di Cambia la terra si scopre che l’Italia è il quarto paese europeo per emissioni, con 363mila tonnellate stimate nel 2020: un dato che migliora soltanto del 4% rispetto a dieci anni prima, nonostante gli investimenti stimolati dal Programma di sviluppo rurale (PSR).
C’è di più: una recente inchiesta di Greenpeace è andata alla ricerca degli 894 allevamenti italiani, appartenenti a 722 aziende, che hanno comunicato le proprie emissioni di ammoniaca al registro europeo. Scoprendo che l’85% ha ricevuto i finanziamenti della PAC nel 2020, per un totale di 32 milioni di euro. Cioè circa 50mila euro per ciascuna impresa. Insomma, gli allevamenti intensivi hanno sempre inquinato, continuano a farlo, ma finora ciò non ha impedito loro di essere sostenuti con soldi pubblici.
Gli allevamenti intensivi rischiano di essere “premiati” dalla PAC
Una distorsione che potrebbe andare avanti anche dopo la recente riforma della PAC. La strategia europea Farm to Fork prevede infatti di dimezzare le vendite di antibiotici destinati agli animali da allevamento. Da qui il primo degli eco-schemi italiani, riferito proprio a «benessere animale e riduzione degli antibiotici». Nel biologico, però, gli antibiotici sono già vietati. Dunque non c’è nulla da ridurre.
«Si determina il paradosso per cui, ancora una volta, la zootecnia intensiva rischia di essere premiata con i fondi pubblici più di quanto potrà esserlo quella bio e l’allevamento al pascolo. Una check-list studiata sul sistema intensivo di grande dimensione e che non consente di registrare il livello di benessere nei piccoli allevamenti e nell’estensivo», conclude Maria Grazia Mammuccini.
Perché un modello alternativo esiste e merita di essere sostenuto. FederBio ha messo nero su bianco un nuovo standard per il benessere animale, ancora più rigoroso di quello previsto per il biologico. Prevede, fra le altre cose, l’obbligo di pascolo per almeno 120 giorni l’anno per bovini, suini e ovini; l’uso di razze a lento accrescimento; il divieto di tagliare le corna alle vacche, il becco alle galline, uccidere i pulcini maschi e rinchiudere le scrofe in gabbie da allattamento. Perché occorre puntare su sistemi di allevamento e di trasformazione dei prodotti nei quali sostenibilità ambientale, benessere animale e salute delle persone siano elementi strettamente legati tra di loro.