“Naturale”, “biodegradabile”, “carbon neutral”, “ecologico”… Simili green claim sono ormai onnipresenti nelle etichette dei prodotti o nelle pubblicità. Ma c’è sempre da fidarsi? Le istituzioni europee promettono di tutelare i consumatori da chi cerca di cavalcare la sostenibilità solo per fini di marketing. L’11 maggio la plenaria del Parlamento europeo ha approvato a schiacciante maggioranza (544 sì, 18 no e 17 astenuti) la sua posizione negoziale sulla proposta di direttiva sulla “responsabilizzazione dei consumatori per la transizione verde”. I nostri lettori Valerio e Oriana si confrontano in questa chat sulle principali novità.
Come regalo per mia cugina ho preso questo set di bagnoschiuma. Costava un po’ di più rispetto agli altri ma c’era scritto “100% naturale”, quindi ho pensato che ne valesse la pena.
Ma in che senso 100% naturale?
Non ho letto tutta l’etichetta a dire il vero, ma vorrà dire che non ci mettono dentro tutte quelle schifezze inquinanti.
A me sembra una dicitura un po’ vaga…
Lo spazio nel flacone è quello che è, mica possono scriverci un libro!
Sai che tra qualche anno un green claim del genere sarà illegale?
Le istituzioni dell’Unione europea stanno lavorando a una direttiva che vuole tutelare i consumatori dal greenwashing. Poche settimane fa, a maggio, il Parlamento europeo l’ha votata in sessione plenaria.
Vuole vietare i green claim generici – come “100% naturale”, appunto – se non sono accompagnati da prove dettagliate. E vuole anche impedire alle aziende di giocare sull’ambiguità. Oggi ce ne sono tante che usano diciture come “riciclabile” o “plastic free” che però si riferiscono solo a una parte del prodotto, per esempio il packaging.
In pratica, metà del supermercato in cui sono stato stamattina diventa fuorilegge!
Mi sa di sì. Ci vorrà ancora del tempo perché la direttiva entri in vigore, perché la procedura legislativa europea è lunga e mancano ancora alcuni passaggi. Ma l’intento è quello di autorizzare soltanto le etichette di sostenibilità che si basano su sistemi di certificazione ufficiali o istituiti da autorità pubbliche.
Mi sembra una bella mossa, visto che la sostenibilità conta sempre di più nelle scelte d’acquisto: insomma, in gioco ci sono i nostri soldi. Ho letto una ricerca di Ipsos che suddivide in consumatori italiani in segmenti. Gli entusiasti, cioè quelli disposti a pagare di più per prodotti e servizi sostenibili e anche a cambiare il loro stile di vita, sono il 17%. I pragmatici, cioè quelli alla ricerca di soluzioni sostenibili che entrino facilmente nella routine, sono un altro 31%.
Ma ci saranno anche i disinteressati che non vogliono muovere un dito, giusto?
Sì, ma sono una minoranza, il 17%.
Credevo fossero molti di più! Buono a sapersi: significa che c’è proprio bisogno di fare un po’ di ordine. Tra l’altro, il Parlamento vuole anche impedire di parlare di carbon neutrality se questa è basata soltanto sui progetti di compensazione.
Intendi i progetti in cui si piantano alberi in giro per il mondo, per esempio in Kenya, Mozambico, Amazzonia? E cos’hanno di male?
Il principio è corretto, perché foreste e oceani sono serbatoi naturali di CO2, cioè la sequestrano dall’atmosfera evitando che aggravi l’effetto serra. Ai progetti di forestazione o gestione forestale sostenibile dunque vengono assegnati dei carbon credit che vengono poi venduti.
Ma questa dovrebbe essere l’ultima spiaggia, la strategia a cui un’impresa fa ricorso soltanto dopo avere ridotto il più possibile le proprie emissioni di gas serra.
Esatto. Sulla carta, dovrebbe andare così: prima riduco le emissioni, poi compenso quelle poche rimaste. Quello che accade, invece, è che molte aziende continuano a fare come hanno sempre fatto, salvo poi pagare per compensare. Ma non è così che si combatte il riscaldamento globale!
Anche perché lo spazio per piantare alberi prima o poi finisce…
Qui si apre un altro capitolo: ci sono progetti di forestazione gestiti in modo impeccabile, ce ne sono altri a dir poco discutibili. Ho letto su Valori un articolo su TotalEnergies…
La compagnia petrolifera francese?
Esatto. Per riuscire ad azzerare le proprie emissioni nette entro il 2050, ha finanziato una gigantesca piantagione di acacie nella Repubblica del Congo. Davvero gigantesca: una distesa di alberi grande quattro volte la città di Parigi. Il problema è che per farlo ha sfrattato da un giorno all’altro quasi cinquecento agricoltori che ora rischiano di non avere più di che mangiare.
Alla faccia della sostenibilità!
Purtroppo non è la prima stortura del sistema dei carbon credit. E temo che non sarà l’ultima. Non so se hai mai sentito parlare di Verra…
Il nome mi suona: è un’organizzazione americana, vero?
Esatto, è l’ente che gestisce il più grande mercato volontario dei crediti di carbonio al mondo. A gennaio è uscita un’inchiesta che sostiene che più del 90% di questi carbon credits sia inutile.
Secondo l’inchiesta, i carbon credit venivano associati a progetti che – nei fatti – non contribuivano davvero a sequestrare CO2. Per esempio, alcuni avrebbero dovuto impedire la deforestazione, ma si riferivano ad aree forestali che in realtà non erano minacciate. Semplificando, il metodo di calcolo avrebbe gonfiato (e di parecchio) i risultati.
Quindi un sacco di aziende hanno pagato per compensare le proprie emissioni, l’hanno sbandierato ai quattro venti… e in realtà c’è il sospetto che fosse tutto inutile? Non vorrei essere nei panni dell’amministratore delegato di questa Verra…
Si è dimesso. Chiaramente non è detta l’ultima parola: Verra ha replicato all’inchiesta e ora sta aggiornando i suoi criteri, ma il danno d’immagine è stato pesante.
Mi hai convinto, adesso terrò gli occhi aperti quando incapperò in green claim come “ecologico”, “emissioni zero”, “amico del clima”. La crisi climatica è una questione troppo seria: non ci possiamo più accontentare di promesse vaghe!
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